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domenica 3 agosto 2014

40 domande per i media internazionali a Gaza (di Saul O)

 Salve.

Augurandomi, come sempre, di fare cosa gradita, riporto qui una mia traduzione in italiano dell'articolo "40 domande per i media internazionali a Gaza" di Saul O, pubblicato inizialmente il 31 Luglio 2014 sul blog britannico "Harry's Place" e ripreso dal Washington Post, qualche giorno dopo.

L'articolo è importante, perché mette in evidenza i limiti di chi, tra reporter ed operatori cine-fotografici, opera in zone di guerra controllate da "autorità" non esattamente rispettose della libertà di informazione e di stampa.

Ad oggi (3 Agosto 2014) nessun operatore dei media ha sentito l'esigenza di porre ai propri colleghi né tanto meno di rispondere ad alcuna delle quaranta domande qui elencate. E questo, a parere di chi scrive, ha molti significati che lascerò dedurre ai lettori.

I link all'articolo originale in inglese su "Harry's Place" e quello al commento del Washington Post sono, rispettivamente qui e qui.
















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40 Domande per i Media Internazionali a Gaza 
(40 questions for the international media in Gaza)
di/by Saul O

  1. Lei ed i sui colleghi avete mai subito intimidazioni da Hamas?
  2. Lei si sente limitato/a nella sua possibilità di "descrivere ciò che vede" a Gaza?
  3. Cosa ne pensa del giornalista spagnolo che ha riferito che Hamas avrebbe ucciso qualsiasi giornalista che avesse filmato il lancio di razzi?
  4. Ha subito pressioni da Hamas affinché qualcosa da lei pubblicato fosse rimosso?
  5. Hamas ha mai minacciato di sequestrarle il cellulare, il computer portatile o la macchina fotografica?
  6. Hamas ha mai sequestrato il cellulare, il computer portatile o la macchina fotografica di un collega a Gaza?
  7. Ha mai visto miliziani di Hamas a Gaza?
  8. Se sì, come mai lei non ha riferito direttamente da Gaza dell'attività di tali miliziani, attività di cui lei è stato/a testimone oculare, invece di riferire indirettamente solo in base a ciò che l'IDF ha detto che avessero fatto i miliziani?
  9. Ha paura di pubblicare foto di affiliati di Hamas in azione sulla sua pagina Twitter, o di trasmettere sul canale tv per cui lei lavora immagini di Hamas che combatte o attacca?
  10. Ha mai pubblicato immagini di terroristi che lanciano razzi da Gaza? Se sì, queste immagini sono mai state respinte dai giornali o dalle emittenti a cui lei le ha inviate?
  11. Ha mai pensato di intervistare i residenti traumatizzati di Gaza?
  12. Quando le Autorità israeliane dicono che la maggior parte dei morti a Gaza sono terroristi, mentre Hamas sostiene che siano civili, lei come si regola?
  13. Quando le statistiche del Ministero della Salute di Hamas contraddicono le stese cifre della propaganda di Hamas e rivelano che a morire a Gaza sinora siano stati per lo più uomini adulti in età da combattimento, questo la fa riflettere?
  14. Un terrorista armato che abbia meno di 18 anni è contato come terrorista o come bambino, quando viene ucciso? Oppure entrambe le cose? Può spiegare ai suoi lettori il perché della sua scelta?
  15. Ha mai provato a far presente ad un portavoce di Hamas che, in stato di guerra, lanciare razzi da zone non militari attirerà una risposta armata e questo porterà alla morte di civili?
  16. Nick Casey del Wall Street Journal ha twittato: "Con il lancio di granate, dovete chiedervi cosa provino i pazienti dell'ospedale Al-Shifa, posto che Hamas lo utilizza come luogo sicuro per incontrare i media". Lasciamo perdere il "chiederselo". Lei ha mai chiesto ad un qualche paziente cosa ne pensa di tutto questo?
  17. E cosa ne pensa del fatto che Casey abbia successivamente cancellato il suo tweet? [l'immagine originale del tweet è quella visibile in alto a sinistra in questo post, ndt.]
  18. Il giornalista Harry Fear di Russia Today ha riferito di siti vicini al suo hotel da cui si lanciavano razzi. Lei ha mai notato terroristi o loro basi nei pressi del suo hotel?
  19. Cosa ne pensa dell'espulsione del giornalista Harry Fear da Gaza, a seguito dei suoi tweet relativi a lanci di razzi da aree civili? E' preoccupato/a di poter essere espulso/a da Gaza anche lei?
  20. Ha mai visto personale operativo di Hamas all'interno dell'ospedale di Al-Shifa?
  21. Hai mai intervistato un portavoce di Hamas all'interno dell'ospedale di Al-Shifa?
  22. Ha mai visto siti per il lancio di razzi all'interno o nei pressi di un ospedale?
  23. Ha mai intervistato personale ospedaliero o pazienti su cosa provino e che ne pensino a proposito del fatto che i loro edifici possano essere utilizzati per attività terroristiche?
  24. Il bunker di comando e di controllo di Hamas è localizzato sotto l'ospedale Al-Shifa. E' un'informazione che val la pena di riferire? Ha mai chiesto di accedervi per intervistare i comandanti di Hamas?
  25. Il quotidiano francese Libération ha riferito che gli uffici delle Brigate Al Qassam siano accanto al pronto soccorso dell'ospedale Al-Shifa, prima di cancellare l'articolo. Era un diritto del reporter quello di cancellare l'articolo e l'informazione sarà ripubblicata nei media in futuro?
  26. Quando un razzo ha colpito l'ospedale di Al-Shati uccidendo dei bambini, lei ha visto membri di Hamas raccogliere i resti del razzo palestinese caduto, così come riferito dal giornalista italiano Gabriel Barbati? Barbati ha forse riferito qualcosa che a lei è sfuggita?
  27. Barbati ha cominciato il suo tweet dicendo "Fuori da Gaza, lontano dalle ritorsioni di Hamas". Anche lei riferirebbe le cose diversamente, una volta fuori da Gaza e lontano/a dalle ritorsioni di Hamas?
  28. Il giornalismo in diretta effettuato da reporter che sono preoccupati di subire ritorsioni da parte delle autorità in merito a ciò che stanno riferendo può essere ancora considerato vero giornalismo, o in quel caso è compromesso alla radice?
  29. Lei ha mai visto o sentito testimonianze di Hamas che usa civili come scudi umani, costringendoli o "incoraggiandoli" a restare o ad entrare in edifici che hanno ricevuto il "roof knocking" [colpo a salve di avvertimento che precede il bombardamento, con cui l'IDF comunica ai civili di scappare ndt.]?
  30. Lei ha mai visto prove che Hamas accumuli armi all'interno di scuole, case, appartamenti, moschee o ospedali?
  31. Lei ha mai intervistato residenti di Gaza per sapere se hanno (o se conoscono qualcuno che abbia) un tunnel sotto casa loro? Cosa ne pensano?
  32. Ha mai provato ad intervistare un genitore di uno dei 160 bambini palestinesi morti scavando i tunnel del terrore?
  33. Ha mai chiesto ad un portavoce di Hamas perché si organizzano per uccidere bambini israeliani lanciando razzi contro obiettivi civili?
  34. Ha mai intervistato un ufficiale dell'UNRWA a proposito del perché Hamas accumuli armi nelle loro scuole e come le armi siano arrivate là?
  35. Lei, attualmente, sta facendo indagini sul modo in cui i razzi di Hamas siano finiti in una scuola UNRWA?
  36. Lei, al momento, sta compiendo indagini sul perché la UNRWA abbia restituito i razzi ad Hamas?
  37. Quando Hamas rompe una tregua con Israele -- come ha già fatto sei volte -- quanto è semplice riferirne da Gaza?
  38. Esiste un qualche sentimento contrario ad Hamas a Gaza ed in che modo viene espresso?
  39. Lei è consapevole che Hamas ha ucciso dozzine di persone che protestavano contro la guerra? Ha ritenuto questa notizia non meritevole di essere riferita?
  40. I media internazionali che lavorano a Gaza sono liberi da pressioni ed intimidazioni o esiste un problema reale? E, se c'è, lei come lo affronterebbe?
(Saul O)
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Saluti,

(Rio)

martedì 22 luglio 2014

"Lettera aperta al vento", di Achinoam Nini (Noa)


Salve.

Sperando di fare cosa gradita, riporto qui la mia traduzione in Italiano di un post sul conflitto tra Israele e Hamas pubblicato in inglese sul suo blog dalla cantante israeliana Achinoam Nini, più nota in Occidente con lo pseudonimo di Noa.

Anche se non sempre quanto dice Noa in questa lettera aperta mi trova d'accordo, la sua resta comunque una testimonianza di prima mano, che contiene alcune interessanti riflessioni sul conflitto in corso relative ai moderati ed agli estremisti che non si possono non condividere.

Il link alla versione originale inglese è questo:
http://noa-the-singer.blogspot.co.il/2014/07/open-letter-to-wind.html


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Lettera aperta al vento ("Open letter to the wind")
di Achinoam Nini (Noa)

Saluti dal nostro angolo di Medio Oriente, dove di recente si è scatenato l'inferno.
Terrorizzata, angosciata, depressa, frustrata ed arrabbiata... Ogni ondata di emozioni compete con l'altra per il dominio dei mio cuore e della mia mente. Nessuna prevale ed io affondo in quell'oceano ribollente che è fatto da tutte loro combinate insieme.
C'è un'allerta-missile ogni ora, da qualche parte vicino casa mia.
A Tev Aviv è anche peggio.

Mio figlio ed io oggi abbiamo fermato l'auto in mezzo alla strada e siamo corsi verso un vicino corridoio, quando è partita la penetrante sirena. Qualche minuto dopo, abbiamo sentito tre boati assordanti che hanno fatto tremare i muri.
Al Sud la situazione è intollerabile. La vita della gente laggiù si è fermata, la loro vitalità schiacciata. Trascorrono la maggior parte del tempo dentro i rifugi antimissile.
Una buona parte dei razzi viene fermata dal nostro sistema difensivo, ma non tutti. Ogni civile è un bersaglio; i nostri bambini sono traumatizzati e le loro ferite emotive irreversibili.

E poi i tunnel scavati sottoterra, che arrivano sin davanti alle soglie delle case di alcuni abitanti dei kibbutz lungo il confine con Gaza...
Nelle buie segrete dei miei incubi, mi figuro a cosa servano: introdursi, rapire, torturare, assassinare...! I nostri soldati sono in prima linea. Sono i nostri figli, i figli dei nostri amici e vicini, giovani uomini e donne chiamati alle armi dal governo. E già vediamo bare avvolte nella bandiera, funerali pieni di lacrime, vite distrutte, Kadish (orazione funebre ebraica, ndt)... La ben nota, devastante routine.

E i gazani...! Oh Dio, i gazani... Cosa potrebbe mai essere più orribile e miserabile di ciò che questa gente deve passare? Il loro destino sarà sempre quello di soffrire per mano di crudeli tiranni? Le immagini di bambini coperti di sangue, il pianto delle madri in abiti intrisi di sangue, i calcinacci e la devastazione, il terrore nei loro occhi, cinque minuti al massimo per uscire dalle proprie case, correre via e salvarsi, perché le bombe stanno arrivando.
E nessun rifugio antimissile.

Le tecniche talebane di Hamas da una parte e gli F16 dell'esercito Israeliano dall'altra, questa gente è nella morsa come le noci, schiacciata dalle ganasce di metallo spesso della cecità e della stupidità umane. La conta dei morti che aumenta di continuo... Per quanto ancora tutto questo dovrà continuare?

Gli uomini di Hamas sono estremisti, sono jihadisti, sono pericolosi e puntano ad uccidere qualunque Ebreo, anche me e mio figlio. Non riconoscono Israele, pianificano la trasformazione di tutti i gazani in shahid (martiri dell'Islam, ndt) utilizzandoli come scudi umani. Abbiamo sentito tutto.
Abbiamo sentito di Hannia e dei suoi scagnozzi ed è probabilmente tutto vero, nella misura in cui la verità esiste.
Ma si può incolpare ogni uomo, donna o bambino per l'amara, orribile follia di ambo le parti?

Ascolto Naftali Bennet (attuale Ministro dell'Economia, ritenuto un "falco" della politica israeliana, ndt) che parla alla CNN, spiegando freddamente che gli uomini di Hamas sono dei terroristi e che abbiamo il diritto di difenderci, il che è vero, è assodato.
Aspetto con pazienza una sua dichiarazione di cordoglio ed il suo dispiacere per la perdita di vite innocenti... Ma non arriva nulla del genere.
E mi domando: ma hai dimenticato che rappresenti un'intera nazione? Hai dimenticato gli insegnamenti di base della tua stessa fede? China la testa e vergognati! Perché tu hai portato alla morte di persone innocenti, uomini, donne e moltissimi bambini, anche se non ne avevi l'intenzione!

E poi sì, Hamas continua con la sua orrenda retorica intrisa di sangue di persone innocenti! Non c'è dubbio che c'è un posto speciale all'inferno per gente del genere, e la storia è piena di esempi simili. Ma questo non ci solleva dall'obbligo di comportarci come esseri umani, a meno che il nostro scopo non sia trasformarci nella terrificante, vomitevole immagine dei nostri peggiori nemici.

Noi, tanto Palestinesi quanto Israeliani, "non abbiamo mai perso l'occasione di perdere un'occasione per costruire la pace". Abbiamo creato questo disastro con le nostre stesse mani, e stiamo pagando un prezzo orribile per la nostra arroganza e follia cieca.

E' facile puntare il dito contro gli altri e chiudersi in un atteggiamento di estrema auto-difesa, quando cadono le bombe. Ogni parte si raccoglie nel proprio angolo, restando vicina ai propri simili, incolpando gli altri.

Il mio cuore è con le famiglie delle vittime, ovunque esse siano.
Sono contenta di avere un potente esercito israeliano che mi difenda da quelli che dichiarano apertamente di voler tagliare la gola ai miei figli, ma non voglio utilizzare il mio dispiacere e la mia paura come uno schermo che mi separi dall'empatia umana e dal pensare lucidamente. Piuttosto, vorrei fare l'esatto opposto.

Voglio stare nel mezzo dell'arena e pronunciare la mia verità.
Ci sono soltanto due parti in questo conflitto, ma non sono Israeliani e Palestinesi, Ebrei ed Arabi.
Sono i moderati e gli estremisti. Io appartengo ai moderati, ovunque essi siano. Loro sono la mia fazione. E questa fazione ha bisogno di unirsi!
Io non ho nulla a che spartire con gli estremisti Ebrei che bruciano vivi i bambini, avvelenano i pozzi e sradicano alberi, che tirano sassi agli scolari e che sono motivati da un odio frutto di lavaggio del cervello e forte presunzione di possedere la verità.

Io ho voglia prendermi la testa tra le mani e scomparire -- sulla Luna, se possibile -- quando leggo i sermoni dei rabbini Ginsburg e Lior, che parlano della morte romantica e dell'omicidio nel nome di Dio, come quello commesso da Baruch Goldstein, loro sacro martire, che ha assassinato 29 Arabi a sangue freddo mentre pregavano! O quando leggo le incredibili parole di razzismo scritte da alcuni miei connazionali, le urla di gioia quando i bambini palestinesi vengono uccisi, lo sprezzo per la vita umana!

Il fatto che abbiamo la stessa fede religiosa e lo stesso passaporto per me non vuol dire nulla. Io non ho niente a che fare con certa gente.
Allo stesso modo, anche gli estremisti dell'altra parte sono miei acerrimi nemici. Ma la loro ira non è soltanto diretta verso di me, ma anche verso i moderati della loro stessa società; il che fa di noi fratelli in armi!

Proprio come esorto gli Arabi moderati, ovunque essi siano, a fare tutto ciò che è in loro potere per respingere l'estremismo, non ho alcuna intenzione di chiudere gli occhi dinanzi alle responsabilità che devono essere assunte dalla mia parte per il fiasco in atto. L'Islam radicale è un fenomeno pericoloso che dev'essere affrontato non soltanto da Israele, ma dal mondo intero. Ma ci sono nel mondo islamico più voci liberali, ci sono partner per il dialogo! Abbiamo davvero fatto tutto quello che potevamo per raggiungerle? La risposta è no; abbiamo fatto l'opposto.

L'attuale governo guidato da Netanyahu ha fatto ogni cosa in suo potere per reprimere ogni intervento di riconciliazione.
Ha indebolito ed insultato Abu Mazen, leader della più moderata OLP, che ha più volte ribadito di essere interessato alla pace.
Quando Abu Mazen ha fatto quelle dichiarazioni sull'olocausto, chiamandolo la più immane tragedia nella storia umana, lo hanno deriso e liquidato senza dargli peso.

Non hanno rispettato gli accordi che essi stessi hanno firmato, rifiutandosi di rilasciare prigionieri che avevano già acconsentito di rilasciare, preferendo continuare con la costruzione di insediamenti, come se non ci fosse alcun negoziato in corso.
E' come schiaffeggiare qualcuno in faccia ripetutamente, mentre gli si dice allo stesso tempo "Facciamo la pace! Non vedi quanto io voglia la pace? Perché non collabori?" E' detestabile.

E che dire dell'iniziativa della Lega Araba? Perché è stata sempre, costantemente ignorata dal governo di Israele? Solo di recente, in un atto di buona fede senza precedenti, una figura di primissimo piano dell'Arabia Saudita ha scritto un articolo in un quotidiano israeliano, esprimendo il proprio auspicio per la pace! E' passato inosservato! Un tale comportamento può solo essere definito come estremamente spiacevole ed arrogante.

Quali folli forze messianiche accecano gli occhi di questi politici e dei loro elettori? Quale biblica sindrome di Giosuè? Cosa pensano tra sé e sé, che lentamente ma inesorabilmente domineranno i territori occupati sino a quando non esisterà alcun modo per create uno Stato di Palestina? E che dire di tutti i Palestinesi che vivono là, delle loro aspirazioni, della loro storia? Del loro benessere, dei loro sogni, delle loro speranze future?
Vivranno semplicemente felici come cittadini di serie B, o forse si convertiranno in massa all'Ebraismo? Qual è il piano?
Non c'è alcun piano, non c'è una visione moralmente compatibile con i valori universali, un desiderio di creare una coesistenza; o quantomeno niente del genere è stato presentato in modo articolato alla nostra gente.

Al suo posto, ci viene somministrata continuamente paura e paranoia, soffiando sul fuoco del nazionalismo, coltivando la xenofobia ed il razzismo. Nei fatti, questa politica sta deteriorando Israele ad uno punto ideologico e strategico di non ritorno.

Solo il dialogo da una posizione di rispetto e di empatia può salvarci.
Solo uno sforzo concertato di rafforzare i moderati e, di conseguenza, marginalizzare quanto più è possibile gli estremisti può procurarci un po' di speranza.

Per quanto Israele disprezzi giustamente Hamas, non sembra che si vada da nessuna parte.
Abbiamo seriamente preso in considerazione le loro condizioni per un cessate il fuoco? Molte di esse hanno un senso!
Perché non cercare di alleviare le sofferenze dei gazani, consentire loro di svilupparsi economicamente, restituire dignità alle loro vite ed ottenere un cessate il fuoco di dieci anni? Dieci anni è un sacco di tempo!
Le menti giovani possono aprirsi.

Persino una modesta prosperità economica può fare da catalizzatore per il cambiamento! Perché diamo per scontato che questi anni verranno usati solo per rafforzare il potere militare di Hamas? Le condizioni includono una supervisione internazionale. Forse in quegli anni si creerà una situazione in cui Hamas, con una generazione di leader più giovani che vedono un orizzonte diverso, verrà trascinata all'interno del territorio della politica in un modo che consenta, finalmente, di aprire un dialogo?

Io chiedo a me stessa ed a Netanyahu: perché non sorprendere noi stessi?! Netanyahu, si dice che tu sia un uomo intelligente: perché non fare un'inversione a 180 gradi, cambiare le regole del gioco, pensare fuori dagli schemi? Da' il benvenuto ad Abu Mazen, spetti di costruire gli insediamenti, sostieni il governo di unità apri Gaza e consenti il commercio con la supervisione internazionale. Abbraccia le aspirazioni palestinesi unitamente alle nostre, accogli l'intervento internazionale e guadagna un vero alleato contro l'estremismo? Scacco matto!

Abbiamo davvero compiuto tutti questi sforzi, prima di mandare a morire i nostri soldati? E' triste, ma la risposta è no.

Nessuno sta smantellando l'esercito israeliano, che resterà forte. Ma allora perché ci rifiutiamo testardamente di correre questo rischio calcolato, preferendo piuttosto il sacrificio dei nostri figli? E' una cosa oltre ogni mia comprensione.
Ad Akedat Yitzchak, Dio è intervenuto salvando il bambino. Dov'è Dio, adesso? E' forse divenuto indifferente a causa dell'abominio che è stato fatto dei suoi sacri insegnamenti dagli estremisti di ambo le parti?

Se ci rifiutiamo di riconoscere i diritti di entrambe le parti e di farci carico dei nostri obblighi, se ciascuno di noi rimane aggrappato alla propria versione, con disprezzo e sprezzo di quella dell'altro, se continuiamo a preferire le spade alle parole, se santifichiamo la terra e non le vite dei nostri figli, saremo presto tutti costretti a cercare una colonia sulla Luna, perché la nostra terra sarà così zuppa di sangue e così intasata di lapidi che non vi resterà più niente per vivere.

Io ho scritto le parole che seguono e le ho cantate insieme alla mia amica Mira Awad. Oggi sono più vere che mai:

    "Quando piango, piango per tutti e due
     Il mio dolore non ha nome
    Quando piango, piango rivolta al cielo spietato e dico:
    Dev'esserci un'altra via."

(Noa)
Martedì, 22 Luglio 2014  
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Saluti,

(Rio)

domenica 15 giugno 2014

Mondiali 2014: Italia - Inghilterra in un pub di South London :-)


Salve.

Per la consueta rubrica "Ho visto cose che voi umani, nemmeno se andaste a cena da Rutger Hauer", vi voglio raccontare un'ora e mezza di libidine vissuta ieri sera quando, da casa mia, mi sono recato in un vicino pub di South London per assistere ad Italia - Inghilterra, partita di esordio degli Azzurri ai Mondiali del Brasile 2014.

Ora, non so quanta familiarità abbiate con la geografia della capitale britannica, ma guardare una partita in pub del West End, di Greenwich o di qualsiasi altra area turistica londinese è cosa ben diversa dal recarsi in un anonimo pub in una zona di Londra che i turisti, e spesso neppure i londinesi, neanche sanno che esista.

Nel pub "turistico", all'ora delle partite si incontra una moltitudine di stranieri in vacanza, che bestemmia in idiomi che i linguisti credevano estinti da millenni e veste con abiti confezionati ad hoc utilizzando i tessuti delle bandiere. Una specie di stadio in miniatura. 
Sia chiaro: è bellissimo. Lo raccomando a chiunque in dosi massicce.
Solo che la partita dell'Italia era alle 23:00 (ora legale inglese) e che tornare dopo mezzanotte e mezza dalla Londra "civilizzata" al mio piccolo angolo misterioso sarebbe stato lungo e soprattutto palloso. 

Per cui alla fine ho optato per una soluzione più comoda: il grande pub di periferia. Un luogo arcano e misterioso agli occhi del mondo, ma che tutti i "locali" conoscono bene, perché i mega-schermi sono davvero mega, il volume della tv è tipo concerto dei Soundgarden, la birra costa poco, c'è spazio, insomma ci siamo capiti.

Entro nel grande pub tipo dieci minuti prima della partita e tutti, uomini e donne, sono già ubriachissimi come ciuchi. 
Hanno già bevuto talmente tanto che quando ordino un sidro alla spina, la barista mi fa "Scusa, darling, ma non abbiamo più bicchieri perché ormai non ce li portano più indietro [eh?]. Va bene un sidro in bottiglia?" 

Proprio in quel momento, parte God Save The Queen e tutti e tutte cantano come possono. Uno continua a cantare anche quando l'inno è finito e si becca uno "Shut it, mate!" da un cristone gigantesco con la pelle scura e tutta tatuata: una specie di guerriero Maori dall'aria "tosta" con cui io veramente non vorrei mai avere una divergenza di opinioni.

Parte Fratelli d'Italia e scorrono le facce dei nostri -- che 'manco quest'anno hanno imparato le parole dell'inno, mortacci loro -- ed è tutto un "Booo, fuck you, you bunch of wankers!" ("andate affanculo, manica di segaioli"). 
Un po' mi indigno, ma poi penso che, in fondo, io non sono nessuno per distruggere i sogni di chi crede che lascerà lo stadio di Manaus con le chiappe ancora vergini.

L'umanità in sede merita una descrizione: gente di tutte le classi sociali e di tutte le età, dai bambini agli anziani, uomini e donne. Il pub inglese è un luogo davvero inclusivo, aperto a tutti.
Ragazze vestite come nelle peggiori occasioni: ce n'era una, seduta poco più in là, che sino a quasi metà del secondo tempo io ho creduto fosse venuta in vestaglia. Poi m'è passata davanti ed ho notato che era tipo un soprabito leggero, una cosa così... Non ho capito bene. 

La maggior parte di loro urlava: urlavano per parlare (il volume della telecronaca BBC era assordante), urlavano alla tv, urlavano alle bariste. 
Uno di loro, sbronzo come una spugna sbronza, si lamenta con la barista più anziana perché non ci sarebbe abbastanza vino rosé nel suo bicchiere e lei, di tutta risposta, finge di spremere la bottiglia di vetro vuota nel bicchiere del tizio. Lui ride e se ne va allegro: a volte basta poco.

Le etnie nel pub sono le più disparate, come si conviene ad una vera società multietnica. Bianchi, neri, indiani, pakistani (cioè io)... Ad un certo punto, entra anche un cinese ubriaco che si piazza, come se niente fosse, proprio davanti allo schermo e le bariste gli dicono di levarsi dalla mamma del cazzo, prima che qualcuno cominci ad agitarsi troppo.

Ma questa varietà umana un comune denominatore ce l'ha eccome: l'alcol. 
Sono tutti talmente ubriachi che quando Sterling ha fatto partire un destro che ha creato l'illusione ottica del gol, giuro che mezzo pub ci ha messo cinque minuti per capire che non avevano veramente segnato.

Una tipa carina ma tamarrissima, con un tatuaggio enorme ed una voce ruvida come la Berté col mal di gola, mi chiede se posso spostarmi, così lei può chiacchierare con la sua amica, la Ragina delle Rozze.
Acconsento. Noblesse oblige.

Proprio lei, dopo un po', si gira e fa, urlando a tutto il pub: "Olè olè olè olè...! En-gland... En-gland...!" E tutti dietro a lei, a fare il coro da stadio. 
Neanche fosse Genny 'a carogna, proprio.

Un altro tizio con un alito al metilene -- che se gli fumi vicino tipo scoppia tutto il pub -- mi chiede se ho da accendere, ma la ragazza al bancone lo sente e gli fa "Get out, mate. This is a no-smoking area! Can't get fucking fined because of you...!" (Non possiamo prendere una cazzo di multa per colpa tua") E poi mi guarda sorniona e aggiunge "...Again."

Comunque, gli Inglesi (quelli in campo, voglio dire) si muovono molto e impegnano subito Sirigu -- che non sarà pure al meglio della forma, come dice Prandelli -- ma cazzo se è in giornata buona.  
Già al 20-mo del primo tempo, Welbeck e Sturridge mi hanno rotto il cazzo con le loro incursioni, che Darmian e soprattutto porca-Paletta non sembrano capaci di fermare.
Una menzione a parte merita il portiere inglese, Joe Hart. Hart è tutto fuorché un buon portiere, ma lo vedete in tutti gli spot pubblicitari, qui. 
Perché? Perché è belloccio e piace alle ragazzine inglesi. E perché è elegante, in campo come fuori, e indossa bene. 
Anche contro l'Italia, Hart era assolutamente in tinta: capelli biondi, pelle bionda, maglia bionda e pantaloncini biondi. 
Un fighetto. Mica cazzi.

E' uno dei portieri più insignificanti nella già insignificante storia dei portieri inglesi. Non vale letteralmente una sega (chiedetelo a Jagielka che, alla fine del primo tempo, dalla linea di porta ha messo fuori il pallonetto di Balotelli, salvando Hart da una figura di merda planetaria) e in Italia non giocherebbe nemmeno nel campionato dilettanti. 
Ma ha stile, il ragazzo: Dolce e Gabbana farebbero a cazzotti per poter vestire lui, invece che il barbier-fòbico Pirlo.

Quindi, l'Inghilterra macinava gioco e così gli Inglesi (quelli nel pub, stavolta) intonavano i vari "come on, England!" come gli "ora pro nobis" in un monastero cistercense. 
In più di un'occasione, le incursioni inglesi mi hanno fatto pensare "Cazzo, menomale che sono delle mezze seghe. Tu un'opportunità del genere la dai, che so, a Robben dell'Olanda e quello ti segna due volte, non una".

Fatto sta che, ad un certo punto -- sarà che la palla è rotonda, sarà che il calcio è imprevedibile, sarà che non lo so perché -- ma è Marchisio-gol: uno sfilatino teso e preciso nell'angolino destro di Hart, che si lamenta perché gli si è stropicciata la maglia e lo sponsor s'indigna.
E va be'. 

Purtroppo, non ho avuto il coraggio di scattare foto alle facce degli Inglesi. Ma l'istantanea presa da internet che vedete qui sopra credo renda l'atmosfera piuttosto bene. 
Ora, voi direte: "E tu che hai fatto? Hai esultato?" 
Be', signori, ero letteralmente l'unico Italiano lì dentro; e il Maori, insieme ad altri cinque o sei armadi a tre ante dell'Ikea sembravano troppo contrariati per la rete di Marchisio perché io mi mettessi pure ad urlare loro in faccia "Goool!". 

Che vi devo dire... Quando l'Italia segna in un oscuro pub di Londra Sud, è l'arte di apparire pensosi mentre dentro si gode come criceti. 
Gli Inglesi ti vedono assorto e pensano "Anche lui è triste, come noi". 
Sì.  'Sto par di palle. 

Chiaramente, nemmeno il tempo di arrivare all'orgasmo, che Rooney si ricorda che sono tipo otto anni che non combina un cazzo in nazionale: così, s'inventa un assist notevole per Sturridge che -- salutato Chiellini (prima di tutto l'educazione) -- vola come una gazzella e trafigge l'incolpevole Sirigu.
Non vi dico: urla, strepiti, gente a torso nudo che esce dal pub correndo avvolta nella bandiera inglese -- 'manco avessero vinto la Coppa Rimet, 'sti sfigati -- gente sbronza che slinguazza a manetta e, ovviamente, tanti, simpatici ed allegri fuck you per ciascuno di noi "Ities".

Io, al gol di Sturridge, resto di pietra e intorno è tutto uno «'scuse me, mate» di gente che vuole festeggiare, e va avanti e indietro con una birra in mano e già diverse nello stomaco. 
Anche il Maori si avvicina al bancone e mi fissa, ma non mi chiede di spostarmi; non dice niente. Io mi sposto in automatico, lasciando transitare la sua enorme massa. Perché io l'ho visto, Once Were Warriors.
Comunque, il pallonetto di Balotelli e il palo dell'ottimo Candreva riportano tutti sulla Terra, vivaddìo.

E va be'. 
Secondo tempo, la musica cambia. Non che l'Inghilterra non sappia rendersi pericolosa, ma comincia a serpeggiare nel pub la sgradevole sensazione che, per trascorrere il week end, il mitologico uccello padulo abbia scelto proprio Londra.
E ci vuole Candreva, che Dio lo benedica, che brucia Baines sulla destra (proprio gli dà fuoco, e Baines, ridotto ormai ad una torcia umana, corre via urlando e si perde nella foresta tropicale) e poi mette in mezzo un cross -- NO, una raccomandata assicurata a nome di Balotelli --  che firma la palla e la mette alle spalle di Hart. Il quale avrà pensato: "Ma quindi è così che è fatto un pallone da calcio...?"

L'Inghilterra ci prova e ci riprova a pareggiare, ma non ci sono né cazzi né mazzi. Ricominciano gli urli e i "fucking", stavolta all'indirizzo di Rooney, che evidentemente pensava con l'assist a Sturridge di aver già dato per altri otto anni. "Rooney, you fuckin' get in the game, you jerk!" è un verso poetico che ricordo. 

La traversa di Pirlo sul finire, come l'alba, porta via con sé i sogni inglesi di non essere più quella squadra del cazzo che invece altro non sono.

Bene. Ci vorrà il calcio, ci vorranno i mondiali, ma per una volta posso chiudere una nota parlando bene del mio Paese.
Qualche demente magari dubiterà, ma quando posso farlo, ne sono molto contento anch'io.

Saluti,

(Rio)

lunedì 24 febbraio 2014

Come ho trovato lavoro in Inghilterra [2] - Burocrazia

Salve.

Scriveva anni fa il giornalista Beppe Severgnini che «un Italiano che ha a che fare con la burocrazia anglosassone si sente come un torero che deve affrontare una mucca: una faccenda deliziosamente rilassante.»

Ed è abbastanza vero. 
La burocrazia in Gran Bretagna non è un gigantesco Moloch che serve solo se stesso, come in Italia. E' veramente ridotta al minimo e serve unicamente per attuare le verifiche per cui è stata introdotta: né più né meno. 

Naturalmente, gli Inglese se ne lamentano lo stesso e, naturalmente, non sanno di cosa parlano. Del resto, ogni cosa è relativa, a questo mondo. Giudicate voi. 

Nel post precedente, ho affrontato questioni sostanziali per la ricerca del lavoro (curriculum, competenze, selezionatori, colloqui, stipendio, ecc.). In questo invece, parlerò degli aspetti "formali", ossia delle procedure burocratiche necessarie per lavorare in Inghilterra.

Non vi serve un permesso di lavoro o di soggiorno per vivere e lavorare in Inghilterra, se siete cittadini italiani. Ciò che vi serve sono essenzialmente tre cose: un National Insurance Number (o NINo), un conto corrente in una banca in GB (non in una filiale in Italia di una banca britannica! Un conto corrente presso uno sportello bancario in Gran Bretagna) e almeno una, meglio due, prove di indirizzo in Gran Bretagna.

1. Il National Insurance Number (o NINo)
Il NINo è l'equivalente britannico del nostro codice fiscale ed è indispensabile per lavorare in GB. O meglio, io ho cominciato a lavorare senza, ma con il Dipartimento delle Risorse Umane dell'azienda presso cui lavoravo che mi ha detto: "Bello, o te lo procuri alla svelta, oppure il rapporto di lavoro si chiuderà a breve".
Sono comprensivi, ma meglio non tirare la corda.

Comunque, per ottenere il NINo è necessario sostenere un'intervista di persona (non telefonica!) presso un JobCentrePlus
Questi JobCentrePlus sono vagamente simili ai nostri uffici di collocamento. Sono dei centri nei quali si prende atto del fatto che il signor tizio, cittadino straniero, è venuto in Gran Bretagna per lavorare e quindi deve ricevere un NINo così che possa pagare le tasse, versare i contributi previdenziali, eccetera. 

Le interviste presso un JobCentrePlus si prenotano telefonicamente, perché c'è un sacco di gente che vuole lavorare in GB, specie di questi tempi. Bisogna chiamare un numero di rete fissa, parlare in inglese (!) con un operatore e dire che ci si trova già in GB, oppure che ci si trasferirà a breve in GB per lavorare e che si desidera concordare la data dell'intervista vis-à-vis per ottenere il NINo

La data dell'intervista la fissa l'operatore in base alle disponibilità del JobCentrePlus più vicino a dove si vive o dove si andrà a vivere. Tipicamente, dato l'affollamento, ci vuole almeno un mesetto per sostenere l'intervista, quindi non è il caso di ridursi all'ultimo momento, specie se si desidera cominciare a lavorare appena possibile. Idealmente, bisognerebbe chiamare il numero verde un paio di mesi prima, per sicurezza.

Il giorno prestabilito, ci si presenta al JobCentrePlus designato dall'operatore muniti di documento d'identità valido. Se potete, portate sempre il passaporto oltre alla carta d'identità. Gli Inglesi non sanno leggere la nostra carta d'identità e s'imbranano. Una volta là, si aspetta almeno un'ora per fare l'intervista (io però ho aspettato tre ore), perché c'è una ressa di gente come allo stadio, e poi si viene chiamati. 

L'intervista in sé è una sciocchezza: ti chiedono quando sei arrivato in Inghilterra (consiglio di fornire sempre la stessa data, su qualsiasi modulo e da qualsiasi ente questa venga richiesta, ora e dopo), come ci sei arrivato (cioè aereo, traghetto, ecc.), quali siano le tue competenze, in quale ambito vorresti lavorare e se hai già iniziato a fare colloqui. Poi, anche dove abiti (l'indirizzo britannico!) e qual è -- se ce l'hai già -- il tuo conto corrente in Gran Bretagna. Tutto qui. 
Non sei tenuto ad avere già il conto corrente inglese, ma se non hai almeno un posto in cui stare in GB, le cose si complicano un po', perché non sanno dove notificarti il NINo. Se hai già un posto in cui vivere in GB, anche temporaneamente, anche se sei presso un amico, da' al tizio del JobCentrePlus l'indirizzo completo. Ricorda di dargli anche il CAP che, diversamente dall'Italia, è molto importante in Gran Bretagna per individuare la casa.

Dopo circa due settimane (ma anche meno), all'indirizzo britannico da te fornito  arriva una lettera del DWP (ente equivalente dell'INPS italiano) con sopra scritto il tuo NINo. Una settimana dopo, sempre allo stesso indirizzo, arriva proprio il tesserino in plastica. 



2. Il conto corrente in Gran Bretagna
Per poter lavorare in Gran Bretagna, avere un conto corrente in una filiale bancaria sul territorio britannico è un preciso requisito di legge imposto dalla HMRC (ente equivalente alla nostra Agenzia delle Entrate). 
Non si può lavorare in GB e farsi pagare in contanti o a mezzo assegno, né farsi accreditare lo stipendio su un conto estero. Per ragioni fiscali, bisogna farsi accreditare lo stipendio su di un conto corrente presso uno sportello situato in Gran Bretagna. 

Non importa la nazionalità della banca, sia chiaro.
Ci sono banche italiane con sportelli in Gran Bretagna e un conto corrente presso uno di questi sportelli va benissimo. Ma dev'essere un conto aperto (o trasferito) presso uno sportello situato sul territorio britannico. Su questo i datori di lavoro non transigono, anche perché le multe sono salatissime. Quindi, ricordate: niente pagamenti in contanti, niente assegni, e men che meno bonifici verso l'estero! Insomma, niente conto "britannico", niente lavoro.

Ora, supposiamo che, per qualche ragione, tu non possa trasferire il tuo conto corrente dall'Italia in una filiale britannica della tua stessa banca (se puoi, fallo e basta: questione chiusa). 
Qui c'è un problema. In Gran Bretagna, nessuna banca ti apre un conto corrente "normale" (cioè a condizioni e costi "normali") se non hai o una lettera di referenze dal tuo datore di lavoro britannico (che, ovviamente non hai ancora) oppure delle bollette cartacee intestate a te che dimostrino che tu vivi ad un dato indirizzo in GB. 
Il riferimento è a bollette di utenze tipo luce, acqua, gas, telefono (solo rete fissa), internet (di nuovo, solo su rete fissa, non internet mobile), tasse comunali, cose del genere, che siano relative ad un indirizzo in Gran Bretagna e che siano intestate a te. Chiaramente, se sei appena arrivato e stai presso un amico, tu certe cose non ce le hai. 
E allora come si fa? Ci sono due modi: uno economico e l'altro no.

2.A - Metodo economico, ma più lungo. Indovina? Ti fai intestare dal tuo coinquilino una bolletta qualsiasi (meglio due) tra quelle sopracitate. Appena hai una comunicazione per posta, vai in banca ed apri il conto. Attenzione! Tutte le banche fanno storie se porti loro bollette on-line stampate da te.
Quindi niente bollette on-line
Ci vuole la buona vecchia bolletta su carta ricevuta per posta ordinaria.
Bada che alcune banche ti faranno storie anche così. 
In quel caso, cambia semplicemente banca: prima o poi, una che ti dà retta la trovi. Mi permetto di suggerire Barclays, NatWest e NationWide, ma veramente una vale l'altra.
Aiuta anche portarsi dietro gli estratti conto del proprio conto corrente italiano, se ci sono un po' di soldi sopra: serve a dimostrare che non siamo proprio quei barboni che invece in realtà siamo (altrimenti non emigreremmo).

2.B - Metodo costoso, ma sbrigativo. Va' in una filiale della HSBC Bank e chiedi di aprire un "Passport Account". E' un conto corrente costoso (ad oggi, Febbraio 2014, costa la bellezza di otto sterline al mese. Il dettaglio con i prezzi dei diversi servizi aggiuntivi, tutti cari, è qui), ma almeno tutto ciò che devi fare è produrre una prova del tuo indirizzo italiano (non quello britannico) producendo, unitamente alla tua carta di identità o passaporto, anche uno dei documenti aggiuntivi da loro richiesti. Il dettaglio di tali documenti è nel link all'HSBC Passport Account riportato più su. 
Io ho dovuto fare così, perché non avevo altra scelta.
Naturalmente, non appena finisce il periodo di sottoscrizione obbligatorio (attualmente un anno), chiudi quel conto ed apritene un altro più conveniente. 


 
3. Una prova di indirizzo in Gran Bretagna
Meglio due, posto che alle volte capita che te ne chiedano due di tipo diverso. Queste prove di indirizzo -- che, ovviamente, devono essere intestate a te -- sono le sopracitate bollette di luce, acqua, gas, telefono (solo rete fissa), contratto ADSL su rete fissa, estratti conto bancari, tasse comunali (tipo council tax), contratto d'affitto, lettere ufficiali da parte di un ente pubblico, ma anche documenti ufficiali, tipo una patente inglese (che riporti cioè l'indirizzo britannico), oppure una lettera del datore di lavoro (se ne hai già uno). Mi raccomando: niente bollette on-line (vedi sopra), perché spesso non te le accettano come prova.
Quindi, richiedi sempre e solo bollette cartacee spedite fisicamente per posta
Stessa cosa per gli estratti conto bancari. Cartacei e spediti fisicamente per posta. Punto.
L'ecologista lo fai un'altra volta, magari.
Le ragioni per cui ti serve una prova d'indirizzo britannica sono molteplici e vanno da una richiesta da parte dell'ufficio personale dell'azienda che ti vuol assumere, passando per eventuali richieste da parte di HMRC (l'Agenzia delle Entrate britannica), sino alla sopracitata banca. 
Molti avranno già notato un corto circuito: la legge e il tuo datore di lavoro esigono conto e domicilio britannici, ma la banca vuole una prova d'indirizzo britannica. Ergo, se non riesci a farti intestare una bolletta, parti dalla banca con il "Passport Account" di HSBC Bank. Pazienza. Se risolvi la banca, potrai usare le comunicazioni della banca anche come prova d'indirizzo in GB.


 
Tempo indeterminato, determinato e precari
Un'ultima cosa che non c'entra con i tre punti qui sopra. In Gran Bretagna si può lavorare per un'azienda o assunti a tempo indeterminato (si dice semplicemente "I am permanent") o a tempo determinato (si dice "I am fixed term") o, infine, come freelance, cioè precario (si dice "I am contract"). Se si accetta di lavorare contract, si guadagnano più soldi (in Gran Bretagna -- che non è mica l'Italia -- i precari vengono giustamente pagati di più degli assunti, per compensare il fatto che possano essere mandati via in qualsiasi momento).

Adesso, diciamo che non hai trovato offerte di lavoro di tipo permanent o fixed term, ma solo di tipo contract. Capita, specie in tempi di crisi, come questo. 
Diciamo pure che, in attesa di tempi migliori, ti alletta l'idea di accettare un lavoro precario in GB per circa sei-otto mesi, in cui puoi tranquillamente tirare su i soldi che ti faresti in un anno come permanent
Io l'ho fatto per alcune settimane e non è male. Nulla a che vedere con il precariato all'italiana: non sei uno schiavo senza diritti, ma piuttosto un consulente, libero di andare e venire come e quando vuole; a condizione che tu produca risultati, ovviamente. E si tirano su bei soldi, al punto che alcuni il posto fisso dopo non lo cercano più.

Il problema è che dovresti sbatterti la burocrazia per aprire una PAYE (cioè una posizione come lavoratore autonomo, una sorta di Partita IVA), e magari è tutto solo per qualche mese, finché non trovi un posto fisso che ti piace. 

Se vuoi evitare, rivolgiti semplicemente ad una cosiddetta "umbrella company". Le umbrella companies sono delle aziende simili alle nostre società di lavoro interinale, ma che coprono tutte le professioni, dall'operaio generico al mega-ingegnere galattico. 
In pratica, in cambio di una commissione pagata dal tuo cliente (non da te), l'umbrella company ti assume e poi ti affitta al cliente. In questo modo, ti risparmi tutta la burocrazia del lavoratore autonomo, compresa la dichiarazione dei redditi: fa tutto l'umbrella company. Tu devi solo lavorare. 

Io ho fatto così e lo raccomando caldamente, a meno che tu non sia venuto in Gran Bretagna per metterti in proprio e lavorare da autonomo sin dal primo giorno.
Le più note umbrella companies sono Nasa Umbrella, GoUmbrella e OptimaUmbrella, ma ce ne sono tante e funzionano tutte bene, che io sappia.

Saluti e alla prossima.

martedì 4 febbraio 2014

Come ho trovato lavoro in Inghilterra [1]


Salve.
Da residente in Gran Bretagna dal 2006, leggo sempre articoli e blog di e su altri Italiani che vivono all'estero ma, pur avendo un mio blog da anni, chissà perché, non mi era mai venuto in mente di mettere nero su bianco il mio punto di vista sulla questione.

Ammetto che la mia è un po' una storia atipica, nel senso che non rientro nella categoria del classico ragazzo neo-diplomato o neo-laureato che, non trovando lavoro nella propria città, ha deciso di trasferirsi in un altro Paese, spesso vivendo e lavorando all'estero per la prima volta in vita sua.

No. 
Il sottoscritto, dopo aver trascorso almeno tre settimane l'anno all'estero dall'età di 11 anni e due mesi estivi in un kibbutz israeliano quando ancora andava a scuola (e per questo devo ringraziare mio padre, che mi ha sempre incoraggiato in tal senso), dopo aver imparato all'estero due lingue straniere ed essersi spostato dal Sud al Nord Italia, ha trascorso gli ultimi sei anni prima di emigrare in Gran Bretagna girando la penisola in lungo e in largo, isole comprese, e lavorando per diversi mesi anche in Algeria, Cina e Croazia.
Sostanzialmente, ho inseguito il lavoro ovunque nel mondo, vivendo e lavorando in tre continenti, senza mai pormi dei limiti geografici (tranne che per le zone di guerra: quelle tenetevele. Rischiare di crepare per una day allowance di 500 euro lordi non rientra nelle mie priorità esistenziali).
Da questo punto di vista, il trasferimento in terra della "Perfida Albione" rappresentava solo il quinto Paese in cui vivere e lavorare. Non una gran rivoluzione per me, francamente.

Un altro motivo per cui non rientro nella "categoria dell'emigrato italiano standard" sta nel fatto che sono -- ahimè -- classe 1970, emigrato in UK a 36 anni compiuti, con almeno dieci anni di lavoro alle spalle e, quindi, con una visione del lavoro e dell'Inghilterra alquanto diversa da quella che potrebbe avere il "ragazzo emigrato medio", ammesso che esista.

Ciò premesso, in questo post voglio riportare in sintesi la mia esperienza, perché ritengo che molti possano ritrovarvi elementi e spunti di interesse, oltre a suggerimenti che potrebbero aiutarli ad evitare errori grossolani e perdite di tempo.

Un'avvertenza importante: non è affatto mia intenzione aprire un "blog amico - SOS espatrio". Quindi, se mi chiederete indicazioni su come risolvere i vostri specifici problemi personali di casa, lavoro, burocrazia, ecc., mi dispiace, ma non darò seguito alla vostra richiesta di chiarimenti. Cercate di capire e non v'incazzate troppo, ché vi fa male alle coronarie.

Dicevo: quando -- stufo di girare come una trottola per il mondo -- sono arrivato in UK in pianta stabile, io avevo un cv che non era di alcun interesse per il mercato del lavoro inglese. Ma non dico così per dire: professionalmente, ero assolutamente inutile. Ero pure troppo vecchio per "vendermi" come inesperto (e chi lo prende un junior a 36 anni? Qui c'è gente che a 36 anni è managing director, cioè direttore o dirigente apicale!).

Allora io mi sono chiesto tre cose:
1. Cosa interessasse al mercato del lavoro inglese, cioè quali competenze "tirano".
2. Tra quelle competenze, quali potessi acquisire io in tempi ragionevolmente brevi, o perché contigue a quello che sapevo già fare o perché, semplicemente, c'ero portato.
3. In che modo io potessi supplire alla mancanza di esperienza che ad un 36enne è sempre richiesta: non si scappa.

Punto Uno.
Capire cosa interessa al mercato del lavoro inglese è piuttosto semplice: basta monitorare quotidianamente gli annunci di lavoro attinenti la nostra area di ricerca sui siti specializzati (tipo, ad esempio,  jobsite.co.uk , ma ce n'è una miriade) e si trovano ottime indicazioni in tal senso. Spesso, le offerte di lavoro riportano anche un'indicazione di stipendio (cosa impossibile in Italia), per cui ci si fa rapidamente un'idea non solo delle competenze richieste, di quanto frequentemente vengano richieste, ma persino di quanto valgano. Ad esempio, al centesimo annuncio di lavoro in cui si cerca un analista programmatore che conosca, oltre ad SQL e VBA, anche il linguaggio di programmazione SAS, si capiscono almeno due cose: SAS è richiesto; SAS è raro (presumibilmente, SAS è più difficile di SQL).

Punto Due.
Una volta che uno si è fatto un quadro chiaro di quali competenze specifiche offrano le migliori possibilità di trovar lavoro e le ha messe in ordine gerarchico per "valore", in termini salariali, deve scendere sulla Terra e farle corrispondere con le proprie competenze e abilità. Ho già detto che la mia esperienza curricolare non valeva nulla in Inghilterra, quindi potevo puntare soltanto su ciò che -- grazie ai (pochi) talenti di Madre Natura -- potevo imparare a fare in tempi non biblici.
Io, ad esempio, sono sempre stato portato per la programmazione: programmavo solo in VBA e in SQL, sia chiaro; ma quando ho visto SAS mi si sono drizzate le antenne. Avevo notato che la combinazione SQL + VBA + SAS + laurea in statistica (che avevo) mi dava la possibilità di provare ad accedere a non poche posizioni di lavoro per le quali c'era una certa domanda, nell'area in cui vivevo.
Inoltre, alcune posizioni richiedevano competenze in project management: io avevo gestito una serie di progetti, sino ad allora, ma l'avevo fatto "all'italiana", cioè mi mancava l'utilizzo di una metodologia standard internazionale. La cosa, comunque, appariva alla mia portata; o, quantomeno, non stavo sognando troppo.

Punto Tre.
Restava "IL" problema: ammesso e non concesso che avessi acquisito quelle competenze, come facevo ad essere credibile senza possedere la necessaria esperienza pregressa? Risposta: grazie ai programmi ed esami di certificazione internazionale.
Molte competenze specifiche hanno anche programmi di certificazione a diversi livelli con relativi esami; spesso duri, ma non sempre.
Questi esami vengono sostenuti quasi sempre in appositi centri gestiti da terze parti, i più noti dei quali sono i Pearson VUE ed gli ETS Prometric (ex Thomson Prometric). 
In pratica, uno studia sui manuali ufficiali del programma, se esistono, oppure si documenta sul sito del programma di certificazione in merito alle materie su cui verterà l'esame e cerca dei libri utili. Poi va in uno dei centri e dà l'esame, che è quasi sempre sostenuto al computer mediante quiz a risposta multipla.
Se lo passa, acquisisce la relativa certificazione, che ha valore internazionale.
Io ho acquisito così le certificazioni "SAS Base Programmer", "SAS Advanced Programmer", "Prince2 Foundation", "Prince2 Practitioner", "SixSigma Green Belt", "PMI CAPM", "Oracle SQL Programmer I" ed "Oracle SQL Expert".
Sia chiaro che queste sono le certificazioni utili al mio profilo: se voi invece siete, che so, ragionieri commercialisti, è probabile che vi servirà una certificazione ACCA, CIMA o CFA. Informatevi con i siti di offerte di lavoro: leggendo i loro annunci (molto meno criptici dei nostri), si capiscono molte cose.

Quando nel cv hai un po' di certificazioni, è molto probabile che a qualcuno venga come minimo la curiosità di incontrarti di persona. Perché, sia chiaro: il cv serve soltanto a quello. A farti arrivare a sostenere un colloquio di persona con l'azienda.

Ma andiamo con ordine.
Il mercato del lavoro inglese è estremamente organizzato (e menomale!): niente "passaparola", "dritte riservate", niente cazzate all'italiana: uno manda il cv (dimenticatevi il formato europeo, che è pesantissimo! Siate pure stringati e semplici) rispondendo all'annuncio sul sito tipo JobSite e, se il cv è di un qualche remoto interesse, riceve una telefonata da un selezionatore indipendente.

E qua dovete essere bravi voi, perché questo/a signore/a non ha molta pazienza. Deve fare tipo cento telefonate ogni giorno e vi parla in inglese a velocità che va dal normale al supersonico, con un accento che dipende da dove si trova la sede dell'agenzia di selezione del personale per cui lavora lui: si va dall'Inghilterra meridionale, se vi va bene, al Galles, alla Scozia o persino all'Irlanda del Nord (a me è capitato).

Se avete lavorato bene con le certificazioni e se avete scritto bene il cv, rispondendo a diversi annunci, è facile (dimenticatevi l'Italia: è facile) che vi telefonino diversi selezionatori, alle volte proponendovi offerte di lavoro differenti da quelle alle quali avete risposto voi. 
Presto vi accorgerete che spesso vi fanno le stesse domande, per cui è bene che vi prepariate risposte chiare e concise. Se c'è una cosa che fa innamorare un selezionatore di voi è la chiarezza, subito seguita dalla brevità. Specie se l'inglese non è proprio la vostra seconda pelle, questa è una fase che vi conviene prepararvi bene in anticipo.
Le "solite domande" sono:
  1. When did you work for the last time? (Se vi siete trasferiti dall'estero e avete passato gli ultimi, che so, sei mesi a studiare per prendere le certificazioni, non è affatto un problema dirlo. Se invece siete stati fermi oltre un anno a non fare un cazzo, be'...).
  2. What's your notice period? (traduzione: che preavviso hai, cioè quando puoi cominciare a lavorare?)
  3. What was your last salary and which are your salary expectations? (traduzione: non sparate troppe cazzate qui, ragazzi. Prima di rispondere, fatevi un'idea realistica di quanto potete valere con il vostro cv e dite quello. E' facile che nel primo lavoro finirete col guadagnare meno, anche molto meno di quanto sperate; ma il primo lavoro serve a rompere il ghiaccio con l'Inghilterra. E' come la prima scopata: non potete pretendere che sia anche la migliore). Avvertenza: nelle negoziazioni, lo stipendio dev'essere espresso in sterline lorde annue, non in euro mensili netti. Si dice al selezionatore, ad esempio, "I'm currently on 35k (per year)", che significa "attualmente, sono sulle trentacinquemila sterline lorde annue". Tenete presente che, mediamente, tasse e contributi di legge pesano intorno al 30%, quindi (35.000 x 70%) ÷ 12 = circa 2.000 sterline nette al mese (sia chiaro: indicazione largamente spannometrica). Non esistono tredicesime o quattordicesime, ma c'è il bonus, che varia enormemente da azienda ad azienda, da settore a settore e da ruolo a ruolo. "Enormemente" è un avverbio da prendere alla lettera: si va dall'1%-10% lordo annuo (es, qui 350-3.500 sterline lorde) ad anche due volte l'intero stipendio annuo (oh yes!), come nel settore dell'investment banking.
  4. How far are you willing to commute? (traduzione: quanto tempo sei disposto a viaggiare come pendolare ogni santo giorno per recarti a lavoro? Attenti, ché qui alcuni selezionatori "giocano sporco", abbreviando le distanze da casa vostra al posto di lavoro, posto che sanno che siete stranieri e che non sapete un tubo. Vi conviene avere un'idea ragionevole delle strade, dei treni, del traffico, per sapere già prima di inviare il cv fin dove siete disposti ad andare: usate un conoscente che è lì da tempo o Google Map o quello che vi pare, ma fatevi un'idea delle distanze e dei relativi costi di pendolarismo prima).
  5. Could you describe me your responsibilities in your previous role(s)? (traduzione: voglio sapere brevemente che cosa sai fare, non la storia della tua vita. Ad esempio -- ed è solo un esempio, quindi non scoraggiatevi: "Nel mio precedente ruolo nel settore XYZ, scrivevo programmi in linguaggio SAS che importavano dati da AS-400, li elaboravano e poi esportavano i risultati in Oracle. I risultati venivano poi importati via ODBC in Excel, dove venivano elaborati da macro VBA, sempre scritte da me, per generare reportistica settimanale automatizzata"). Preparatevi le risposte per ogni vostro precedente ruolo in modo da apparire concrete, pratiche e utili. Se serve, improsciuttatele pure un po', ché tanto lo fanno tutti (gli Inglesi per primi), ma non esagerate! La regola è sembrare professionali e stringati, non cazzari e prolissi.
  6. How many annual leaves were you entitled to, in your previous role(s)? Le annual leaves sono i giorni di ferie, non le foglie d'autunno. :-) Tenete presente che, mediamente, in Inghilterra avete diritto a qualcosa tra i 21 e i 25 giorni di ferie, ma possono benissimo essere di più. Spesso, aumentano con l'anzianità di servizio.

Ora, alcuni di questi selezionatori che vi chiameranno sono tipi "improbabili" che cercano di farsi autorizzare da voi a rifilare il vostro cv ad aziende per posizioni con cui voi non c'entrate un tubo e, di conseguenza, vi fanno solo perdere tempo. Ad esempio, una volta a me è capitato un tizio che voleva proporre il mio cv ad una banca tedesca per un ruolo a Francoforte per cui erano necessarie "buone capacità di presentazione e persuasione dei clienti, in lingua tedesca". Solo che io non so una parola di tedesco. 
Eravamo nel bel mezzo della crisi economica del 2008-2009 e io stavo per perdere il posto, perché la banca per cui lavoravo stava per fallire: così gli dissi di sì. Non vi dico come andò il colloquio telefonico con la banca tedesca...  :-)

Comunque, la prima cosa da fare quando un selezionatore vi chiede se può proporvi o meno per un ruolo, è farvi mandare per email da lui la descrizione della posizione di lavoro (in inglese, la "job specs").
Ve la leggete e, se vi interessa e non è una cosa fuori dal mondo, tipo che il tizio vuole proporvi come governatore della Bank of England, allora potete autorizzarlo a proporvi all'azienda cliente (si dice "you can put my cv forward to your client").
Attenti qui, perché siete vincolati legalmente: per ogni posizione, non potete autorizzare più di un selezionatore. Se li volete fare davvero incazzare, così che non vi chiamino più nemmeno se sull'offerta di lavoro c'è scritto il vostro nome e cognome, autorizzate più di un selezionatore per la stessa stessa posizione aperta. 
Anche a questo serve la job specs: fate domande, chiedete il nome dell'azienda, tutto. Se vi rendete conto che questo selezionatore vuol proporvi per la stessa posizione per cui avete già autorizzato un altro, diteglielo e basta. Capita di continuo e ai loro occhi ci guadagnerete in serietà; e non serve sottolineare che la cosa vi conviene.

Diciamo che al selezionatore piacete e che l'avete autorizzato a proporre il vostro cv al suo cliente per una determinata posizione aperta. A quel punto, la palla passa al cliente, cioè all'azienda che ha ricevuto il cv.
E qui possono succedere essenzialmente tre cose:

1. Il cliente può dirsi non interessato al vostro cv, e non è detto che il selezionatore vi chiamerà per dirvelo: tuttavia, i bravi selezionatori imparano a non "rompere le scatole" ai loro clienti più di quanto non sia strettamente necessario. Se vi telefonano, è perché intravvedono nel vostro cv diversi motivi di interesse per alcuni loro clienti. Non vi chiederanno di proporvi ad un loro cliente, se non sono convinti che la cosa possa seriamente interessare il cliente. Però, come già detto, ci sono anche i selezionatori meno bravi...
2. Il cliente può aver bisogno di ulteriori chiarimenti. In quel caso, il selezionatore vi richiamerà e vi porrà ulteriori domande; se non lo convincerete, potrebbe pure decidere di lasciar perdere, per non indisporre il cliente. Avrete già intuito che il selezionatore guadagna a provvigione sullo stipendio del futuro neoassunto e che lavora in un mercato altamente competitivo (nelle aziende è un continuo squillare di telefoni con selezionatori che propongono il cv di tizio o caio). Di conseguenza, e almeno in questa fase, il selezionatore non lavora per voi, ma per il suo cliente. Il selezionatore ha un elenco di potenziali candidati (tra cui voi), ma farà arrivare a sedersi davanti al suo cliente solo quello/i per cui vale davvero la pena di "disturbare" il cliente.
3. Il cliente -- vivaddio! -- vuol vedervi per un colloquio. Allora il selezionatore vi chiama e vi chiede le vostre disponibilità di giorno e ora, cercando di farle combaciare con quelle del cliente. Si fissa il colloquio.

Quando andate al colloquio presso l'azienda cliente, fatte salve alcune deplorevoli eccezioni, non vi sottoporranno domande idiote e test da imbecilli, come fanno sempre in Italia. 
Non vi chiederanno cazzate immani come "Perché vuol lavorare con noi?" o puttanate dal sapore epico come "Ha mandato cv anche ad altre aziende?".
Il colloquio verterà per lo più sul curriculum, per valutare le competenze e, cosa ancora più importante, per capire che tipi siete. Non sottovalutate quest'ultimo aspetto. Più spesso che no, un'azienda deve decidere tra diversi candidati che hanno, o dicono di avere, più o meno le stesse competenze. Veramente, su quel piano, uno vale l'altro. E allora si decide prendendo, tra questi, quello/a che appare più affabile, quello/a che sembra essere la persona con cui è più gradevole lavorare.
Preparatevi qualche aneddoto sui vostri trascorsi di lavoro (inventatevelo, se necessario), perché è possibile che alla fine dell'intervista vi chiedano cose del tipo: "Ci racconta di un suo insuccesso professionale?" Non dovete farli ridere, non siete a Zelig, ma vogliono sapere come reagite alle frustrazioni ed è comprensibile: se sanno che nel loro ambiente di lavoro ogni tanto arrivano legnate in testa dai clienti, non è mica un dettaglio sapere come reagirete, quando inevitabilmente capiterà anche a voi.
Noterete che al colloquio spesso cominciano a parlare loro, per spiegarvi il lavoro. Approfittatene per ascoltare bene e fate loro delle domande: non lasciate mai che pensino che per voi un lavoro vale l'altro, basta che se magna; specialmente se è vero. :-)
Ovviamente, se vi chiederanno le vostre aspettative di stipendio, date loro un'indicazione perfettamente in linea con quella che avevate già dato al selezionatore in precedenza. Se invece stavolta volete fare incazzare tutti e due, cioè sia il selezionatore che il cliente, sparate pure il doppio. Avrete fatto perdere tempo non ad una, ma a due persone. Dopo, potete metterci una croce sopra, proprio.

A questo punto, aspettate una telefonata dal selezionatore. Il cliente, infatti, non vi dirà com'è andata: lo dirà prima al selezionatore. E' probabile che sia il selezionatore a chiamarvi per primo, per sapere "com'è andata" e che impressioni avete ricevuto. Siate sinceri.
Dopodiché, vi dirà che vi farà sapere appena avrà ricevuto notizie dal cliente. E' certo, infatti, che il cliente voglia fare un colloquio a tutti gli altri candidati, prima di scegliere.
Se il selezionatore vi chiama e vi dice che il cliente è contento di voi, vuole anche dire che da quel momento il selezionatore lavora per voi. Infatti, i selezionatori del personale inglesi guadagnano prendendo una percentuale sul vostro stipendio iniziale (non la tolgono a voi, tranquilli! Gliela paga l'azienda cliente a parte). Quindi, più è alto lo stipendio d'ingaggio e più guadagnano.
Provate pure -- con tatto -- a chiedere loro se, a loro parere, non sia possibile ottenere qualcosina in più dal cliente, magari perché abitate lontano dall'azienda e gli spostamenti costano molto. Magari, lasciate trapelare che avete sostenuto colloqui per altre aziende più vicine (la mia scusa preferita).
Se lo escludono categoricamente, vuol dire che la vostra posizione, purtroppo, non è nella pole position di gradimento del cliente. Ma il più delle volte vi assicuro che saranno ben lieti di fare un piccolo tentativo. Conviene anche a loro: non si sa mai.

Esistono eccezioni, ma di solito un unico colloquio è sufficiente per essere assunti o scartati. Personalmente, trovo la cosa molto sensata e indicativa: un'azienda che richiede due o tre colloqui per risolversi su un'assunzione a me appare poco capace di prendere decisioni rapide e probabilmente affetta da una struttura troppo gerarchica.

Mi scuso se mi sono dilungato parecchio.
Nel prossimo post, la burocrazia inglese: e, lo assicuro, sarà un post più breve. :-)

Saluti,

(Rio)