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giovedì 27 ottobre 2011

Invettiva contro Berlusconi di un liberista all'estero

Salve.

Nel corso degli ultimi 40 anni, il nostro Paese si è trovato sovente in gravi difficoltà, a volte di carattere economico (crisi petrolifere degli Anni '70, crisi valutaria dei primi Anni '90), altre di carattere sociale (gli Anni di Piombo e dell'Eversione Nera, l'affermazione della mafia, il secessionismo Leghista) oppure politico (la crisi del PCI, la fine della Prima Repubblica e Tangentopoli).

Tuttavia, nella tormentata e, a volte, drammatica storia della Repubblica, non si ricorda un momento buio come questo in cui, alla crisi economica che registra i suoi massimi storici ed all'immobilismo politico, si aggiunge una caduta verticale in termini di credibilità internazionale, di cui -- fidatevi -- in Italia giungono solo eco smorzate.

Il nostro Paese è ormai percepito all'estero come la patria di un manipolo di finti furbi, intenti ed avvezzi al gioco delle tre carte molto più che al sacrificio, il cui unico scopo nella vita è continuare a "spassarsela" il più a lungo possibile, scaricando opportunisticamente i propri conti da pagare sugli altri; un popolo di faccendieri sempre pronto ad inventare nuove scuse e ad approfittare subdolamente di ogni possibile scappatoia per procrastinare all'infinito l'adempimento dei propri obblighi verso l'Unione. 

Ai molti che si interrogano sulle ragioni di questa crisi di credibilità, vengono subito in mente due parole: Silvio Berlusconi. E in effetti nessuno come il più longevo premier d'Europa, il protagonista assoluto della storia politica italiana degli ultimi 20 anni (questo anche per colpa degli altri), può essere additato come il principale responsabile di questo stato di cose.
Le colpe di Berlusconi non si limitano alle clamorose cadute di stile per un Presidente del Consiglio dei Ministri, dal bunga bunga sino al mercato delle vacche a Montecitorio, passando per le uscite assolutamente inopportune sugli altri Primi ministri, sino alle figuracce diplomatiche ai vari summit internazionali.
E nemmeno si fermano alle inchieste giudiziarie che lo vedono coinvolto, né alle sue battaglie istituzionali contro la "magistratura  rossa" (che pure esiste), né ai tentativi sfacciatamente reiterati di ottenere l'approvazione di leggi ad personam, al solo scopo sfuggire alle proprie responsabilità penali o di favorire le aziende di famiglia.
Da quanto già detto, ci sarebbe abbastanza per mettere il Cavaliere da parte per sempre, relegandolo tra le pagine più tristi ed imbarazzanti della storia repubblicana.

E invece no.
Io non crocifiggo il signor Silvio Berlusconi per questo motivo. Se l'attuale Presidente del Consiglio avesse attuato un terzo, dico, soltanto un terzo delle cose che aveva promesso di fare in 17 lunghi anni, io -- e, badate, dico sul serio -- gli avrei perdonato tutto: dalla prostituzione di minorenni alla figuraccia al vertice NATO del 2009 in Germania (questa, che qui in Gran Bretagna fa ancora ridere tutti); dalla guerra istituzionale con i giudici (alcuni dei quali, lo si ammetta una buona volta, sono davvero obiettivi come Vittorio Agnoletto) sino al Lodo Alfano ed ai maledettissimi condoni.

La cosa che davvero io, da liberista, non gli perdono è quella di non aver avuto il coraggio di fare nessuna di quelle scelte impopolari, di quelle misure severe la cui attuazione rappresenta l'essenza stessa e la vera necessità dell'esistenza di una Destra in politica.
Non c'è bisogno del Centrodestra per spendere soldi e per cavalcare l'onda del consenso. C'è bisogno del Centrodestra per rimettere in carreggiata un Paese che vive al di sopra delle proprie possibilità, con un'evasione fiscale spaventosa, ma anche con un apparato pubblico che, più che erogare servizi utili allo sviluppo del territorio, davvero sembra stia lì per dare ad alcuni fortunati un posto di lavoro fisso e, tutto sommato, ben retribuito, senza che costoro si preoccupino minimamente di contraccambiare producendo valore per la collettività, né tantomeno di farsi valutare.

Il peccato mortale di Silvio Berlusconi non si chiama né bunga bungaconflitto di interessi e nemmeno leggi ad personam: il peccato mortale di Silvio Berlusconi si chiama codardia politica.
L'Italia ha l'unico leader di Centrodestra al mondo che pretende di governare una situazione grave e complessa come quella italiana per mezzo di manovre economiche basate sui sondaggi d'opinione.
Lo spettacolo patetico della manovra di risanamento della scorsa estate, messa insieme e poi disfatta mille volte in base all'intensità delle urla di protesta ora di questa, ora di quella lobby di interessi, relega il Popolo delle Libertà ed il suo leader tra le formazioni populiste, lontane anni luce dalla serietà e dal rigore di personalità della Destra moderna come Margaret Thatcher, Ronald Reagan o José María Aznar.

Berlusconi spesso si giustifica dicendo di aver ereditato una situazione insostenibile, venutasi a creare in sessant'anni di Repubblica. È vero:
  • non è Silvio Berlusconi che ha portato il rapporto "debito / PIL" dal 37% (giuro!) della metà degli Anni '60 al 119% circa di oggi; 
  • non è Silvio Berlusconi che ha determinato una situazione in Italia in cui ci sono oltre quattro milioni di dipendenti pubblici, che si stima svolgano un lavoro che potrebbe essere fatto altrettanto bene (o altrettanto male, fate voi) da circa la metà delle persone;
  • non è Silvio Berlusconi che ha messo in piedi un sistema previdenziale ed un mercato del lavoro che, sul piano intergenerazionale, risultano essere i più iniqui del mondo industrializzato e non è certo Silvio Berlusconi che li difende a spada tratta e con malcelato e cinico egoismo, nascondendosi dietro paraventi sindacali ridicoli;
  • non è nemmeno Silvio Berlusconi quello che ha creato un sistema di istruzione scolastica ed universitaria che rappresenta gli interessi di chi vi lavora molto meglio di quelli di chi usufruisce dei suoi servizi;
  • e non è stato certo Silvio Berlusconi ad inventarsi follie irresponsabili come il finanziamento delle spese di parte corrente del bilancio dello Stato (leggi: pensioni e stipendi, più altre spese non legate ad investimenti) attraverso il ricorso all'emissione di titoli del debito pubblico, i cui interessi hanno trascinato il Paese in pessime acque finanziarie.
Ma Silvio Berlusconi si è candidato ripetutamente per offrire una soluzione a tutto questo, e non ritengo affatto che fosse ingenuo al punto da credere sul serio che la sua sarebbe stata una medicina gradita alla gente.
Silvio Berlusconi ha più volte detto di voler dedicare questa fase della propria vita alla politica ed al Paese, ed ha invitato la gente a vedere in lui il "non politico" che aveva i numeri per fare quel che da anni andava fatto, ma che nessuno aveva mai avuto il coraggio di fare.

E invece, dopo diciassette anni di quasi immobilismo, adesso siamo qui, Centrodestra e Centrosinistra (o quel che ne rimane) ad invocare lo spauracchio del "governo tecnico". Come se un governo politico servisse solo per l'ordinaria amministrazione e le piccole cose, mentre, tutte le volte che c'è da decidere su questioni vitali, da cambiare rotta, da prendere decisioni coraggiose -- in una parola, ogni volta che c'è da fare Politica con la P maiuscola -- la palla passasse ai "tecnici", così da evitare ai "politici" ogni assunzione di responsabilità ed ogni conseguenza dinanzi ai loro elettori.

Dopo anni di umiliazioni pubbliche che hanno fatto scoprire anche agli Italiani più insensibili il significato del termine "imbarazzo", i nostri problemi -- non affrontati per pura e semplice codardia politica -- sono tutti ancora lì e, con il tempo, sono peggiorati sino al punto da rischiare di divenire cronici.
Alla fine, ci siamo lasciati umiliare per cosa?

In più -- e questo lo dico da liberista -- con questi 17 anni si è offerta ai populisti dell'altra parte come Antonio Di Pietro una scusa impagabile per giustificare la loro, di inettitudine politica -- quando verrà il  momento per IdV di governare.
Ad ogni fallimento, ad esempio, nella lotta all'evasione fiscale, per anni basterà ripetere il mantra: "Il Paese deve ancora riprendersi dal ventennio berlusconiano e dai danni che il Centrodestra (sic!) ha inflitto al tessuto sociale ed economico italiano".

Saluti e buona fortuna a tutti,

(Rio)

sabato 15 ottobre 2011

Indignados, torti e ragioni [1] - Il default

Salve.

In queste ore, migliaia di giovani stanno sfilando e manifestando nelle strade e nelle piazze delle principali città italiane e di altre città del mondo, per protestare contro l'immobilismo politico, l'iniquità o l'inefficacia delle misure anti-crisi varate dai governi dei Paesi industrializzati.

La manifestazione di protesta ha ricevuto in queste ore la solidarietà non solo di svariati personaggi del mondo politico italiano, sempre a caccia di consensi, ma anche del Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, appena due settimane prima della sua nomina a Governatore della BCE, la Banca Centrale Europea. In particolare, in più di un'intervista Draghi riconosce che non esiste alcuna ragione da parte dei giovani per accettare l'attuale stato delle cose.

Oggetto principale della protesta sono le banche e la finanza in generale, colpevoli -- a detta dei manifestanti -- di favorire l'arricchimento dell'1% della popolazione causando l'impoverimento del rimanente 99% attraverso un meccanismo di creazione ed alimentazione del debito, in particolare del debito pubblico.

Sin qui, per me, nulla di più condivisibile: resto anch'io perplesso dinanzi ai paradigmi della logica del "too big to fail", che prima ha permesso a grandi istituti di credito ed assicurativi di arricchirsi costruendo e rivendendo prodotti finanziari derivati il cui rischio è stato scaricato sul compratore in modo  -- come dire? -- non esattamente trasparente; e poi, quando il gioco è saltato, ha obbligato gli Stati ad intervenire per salvare tali istituti con massicce iniezioni di capitale pubblico, cioè di tasse dei contribuenti.

Non voglio nemmeno entrare nel merito dell'assurdità di concedere cospicui bonus (sempre pagati con il denaro pubblico!) ai dirigenti di questi istituti; un gesto che personalmente considero pura pazzia.
E lo dico da liberista. Davvero mi sfugge la logica per cui, se uno mi manda a quarantotto l'intero sistema finanziario, io debba elargirgli un bonus, invece che un calcio nel sedere.
Questo non è né capitalismo né liberismo: questa è semplicemente una presa in giro; pagata da noi, per giunta.

Ben venga, quindi, la protesta e l'indignazione, affinché la politica finalmente si schiodi dalle proprie beghe interne, sempre più irrilevanti agli occhi del Paese, e si decida a superare l'immobilismo attuale, orientandosi verso un qualche tipo di soluzione.

Tuttavia, con l'Italia il problema -- neanche a dirlo -- si complica.
E si complica perché la protesta è stata immediatamente presa in mano, nel migliore dei casi, da gruppi della Sinistra antagonista ed anticapitalista; nel peggiore, dai sostenitori di tesi pseudo-scientifiche e cospirazioniste.
Ed è qui che iniziano i guai.

In questa serie di post (il secondo, dedicato al tema dell'uscita dall'euro, è qui), mi propongo di affrontare uno per volta i temi e gli slogan più popolari tra gli Indignati, analizzandone la fattibilità.

Cominciamo con un classico dei classici: il default.
Quello del default dello Stato è uno degli argomenti più rilanciati dai cortei, perché è visto come uno strumento utile per giungere alla ristrutturazione del debito pubblico. Di che si tratta?
In pratica, lo Stato Italiano dichiara bancarotta e quindi si dice nell'impossibilità di ripagare il debito pubblico accumulato, se non in piccola parte. Di conseguenza, chiede la cancellazione di parte del debito ai suoi creditori interni ed esteri: come dire, che se prima ti dovevo "100", facciamo che da oggi ti devo solo, che so, "40".

Qualcuno penserà che così facendo rischiamo di passare per cattivi pagatori agli occhi di tutti gli investitori d'Italia e del mondo i quali, dopo aver comprato i nostri bei BOT a "100", improvvisamente si ritrovano in mano con dei prodotti che valgono solo "40" (così, per decreto); per cui c'è il rischio che alla prossima emissione di titoli di Stato ci rispondano tutti "comprateli te" e così noi non incassiamo un centesimo, a meno di non promettere interessi ancora più alti e, quindi, di inguaiarci ancora di più con i debiti.
(N.B. Per semplicità, permettetemi di chiamare ironicamente questo risultato "effetto comprateli te")

E allora ecco che dall'incredibile fantasia al potere dei manifestanti emerge una cosa nuova: il "default selettivo". In pratica, i BOT in mano alle famiglie non vengono decurtati, mentre quelli nelle mani di aziende, istituti di intermediazione, fondi di investimento, invece, sì.

Peccato che la stragrande maggioranza dei titoli pubblici sia nelle mani proprio di questi ultimi, e che spesso i loro BOT decurtati -- vuoi direttamente, o attraverso la creazione di prodotti derivati -- finiscano anche nei fondi pensione, nei piani di accumulo o nei piani di gestione patrimoniale di privati cittadini, per cui:
  • L'effetto "comprateli te" non viene attenuato più di tanto: i titoli comunque non si vendono più come un tempo.
  • Molti privati cittadini continuano a rimetterci tanto quanto prima, perché i titoli decurtati finiscono anche nei prodotti finanziari in loro possesso.
Inoltre, i titoli di stato si vendono e comprano liberamente sul mercato mobiliare. Con eccezione della Banca d'Italia, che non può acquistare titoli di stato al momento dell'emissione (cioè non può acquistarli direttamente dallo Stato), tutti gli altri soggetti possono acquistare, e di fatto acquistano, titoli sul mercato.
E allora che succede se, ad esempio, un titolo non decurtato in mano ad un cittadino finisce con l'essere rivenduto ad un'impresa privata?
In condizioni normali di mercato non farebbe differenza a chi il titolo viene venduto, ma in questa situazione di due pesi e due misure, non si capisce se il valore nominale di questo titolo andrebbe decurtato, ora che è passato nelle mani di una "malvagia azienda pluto-liberista" oppure può rimanere com'è.

Perché, se rimane com'è, si è trovato un modo per le imprese di aggirare il gioco: lasciare che i BOT li acquistino i privati, per poi ricomprarli da loro, ritornando così in possesso del debito pubblico, con buona pace degli Indignados.
Se invece viene decurtato, be', diventa molto più difficile per i privati monetizzare i BOT (cioè venderli), qualora si presentasse una necessità di liquidità: di conseguenza, i BOT diventano un prodotto molto meno interessante per gli stessi privati, visto che un privato riesce a venderli solo ad altri privati.
In sostanza, i buoni del Tesoro diventano utilizzabili solo come investimento a lungo termine e quindi, in generale, di BOT all'asta lo Stato riuscirà a venderne  meno.
Per cui, rimane il problema: senza vendere buoni del Tesoro, lo Stato come si finanzia?

Ma non finisce qui. E sì, perché tra i soggetti privati che più investono in titoli di Stato ci sono -- attenti alla scoperta dell'acqua calda -- le famigerate banche. Una banca ha mediamente il 20% (ma alcune banche di più) del proprio portafoglio titoli in titoli pubblici.
Ora, vedendosi decurtare sostanzialmente il valore di questa parte del portafoglio, secondo voi la malvagia banca che farà? Be', io direi che cercherà di correre ai ripari, chiedendo di rientrare subito ai suoi clienti, cioè alle imprese che hanno chiesto prestiti ed ai privati che hanno acceso mutui.
Quello che succede adesso dipende da diversi fattori, per cui ci sono più scenari ipotizzabili, ma i principali sono due:
  1. imprese e privati, rifiutandosi di rientrare (anche perché oggettivamente non possono), si rivolgono alla magistratura, appellandosi in base a questa o quella norma o regolamento, e la cosa può finire male per tutti, perché le banche a quel punto si rifiuteranno di concedere prestiti alle condizioni vigenti, che diverranno -- di colpo -- molto più onerose. Per tutti.
  2. oppure, semplicemente, i debitori che ce la fanno rientrano e gli altri invece vengono dichiarati falliti. I beni di aziende e privati vengono pignorati ai sensi di legge.
Scegliete voi lo scenario che vi aggrada di più. In entrambi i casi, la quantità di denaro prestata diminuirà drasticamente e le ripercussioni negative sul clima dei mercati e dell'economia in generale saranno rilevanti.

Ricapitoliamo:
  • uno Stato che non riesce più a vendere titoli del Tesoro;
  • un Paese già nei guai e che vede contrarsi ulteriormente l'economia nazionale, anche per effetto di una stretta creditizia; 
  • un sistema bancario che non si fida più di nessuno e pretende condizioni più difficili da soddisfare;
  • una serie di imprese dichiarate fallite;
  • altre imprese che devono prendere a prestito il denaro per lavorare ad un costo molto più elevato di prima;
  • e, per finire, un gran numero di privati cittadini non benestanti che si ritrova con le case ipotecate.
Un risultato niente male per la fantasia al potere, vero?
Ma facciamoci del male: andiamo ancora avanti.
Che succede dopo? La cosa più ovvia, visto l'elenco precedente, è che lo Stato -- non riuscendo più a vendere tanti BOT quanti ne vendeva prima -- finisca col non avere più i soldi per pagare le pensioni e gli stipendi degli Statali.

Cosa farà? Be', può chiedere un prestito al Fondo Monetario Internazionale, ma questo è assurdo per almeno due ragioni:
  1. vanificherebbe tutta la menata degli Indignados, perché si finirebbe con il cancellare un debito per poi coprirlo con un altro debito; un debito, tra l'altro, verso il FMI, ovvero il Male Puro, la testa dell'Idra Finanziaria Mondiale... 
  2. La seconda ragione è che il FMI non è mica Babbo Natale. Non presta soldi a vanvera. Se ti concede una somma in prestito, lo fa solo a condizione che tu elimini dal tuo sistema ogni elemento di nonsense che possa in qualche modo inficiarne la restituzione. Il FMI è un po' come il papà che ti dà la paghetta, ma vuol prima vedere che rimetti in ordine la stanza. Quindi, in sostanza, si tratterebbe di tornare ad una situazione precedente alla "Rivoluzione degli Indignados". Forse ancora più "capitalista" di quella.
E allora che si fa? Se nessuno presta i soldi allo Stato, be', lo Stato si mette a stampare cartamoneta. Ma con l'euro non si può. E' la BCE, e solo la BCE, che ha l'autorità di disporre i quantitativi di euro stampati dai vari Paesi ogni anno.

Quindi, non rimane che uscire dall'euro.
Questa è una delle richieste, ad esempio, degli Indignados greci. Ma con un'economia debole come quella italiana o greca, ritornare alla lira o alla dracma significa reintrodurre una valuta estremamente svalutata, rispetto all'euro. Per la serie: che nessuno si sogni di rivedere la lira a quota 1.936,27 sull'euro, con l'economia disastrata che abbiamo oggi! Un euro oggi varrebbe molto di più: diciamo 3.000 lire, ad esempio.

L'Italia, si sa, non è un Paese produttore di molte materie prime essenziali.
Provate voi ad acquistare il petrolio o il gas metano che ci occorrono, come anche qualsiasi altra merce di importazione, pagandola, di colpo, il 30% in più.
Questo vuol dire che andranno rivisti al rialzo i prezzi di quei beni prodotti con l'ausilio di quelli primari (cioè TUTTI i beni, perché quasi tutto si produce e vende utilizzando, prima o poi, energia o benzina). In breve: un'inflazione a due cifre.

Questa inflazione galoppante fa sì che il valore della "lira reintrodotta" si riduca sempre di più, portandosi ai livelli delle valute di quei Paesi africani in cui, ad esempio, ogni tre o quattro anni il prezzo di tutto raddoppia.

Non è ancora finita: esiste la possibilità concreta che molti operatori internazionali presto smettano di accettare la "lira reintrodotta" per i loro pagamenti. Di conseguenza, lo Stato è costretto prima a dar fondo alle proprie riserve di valuta pregiata e poi a conferire in garanzia il proprio oro.
Una catastrofe.

Morale della storia: questo del default è il classico esempio di teoria pseudo-scientifica che -- in tempi disperati come questi -- ha grande presa sulla gente, perché sembra offrire una soluzione semplice a problemi in realtà molto complessi.
Tutte queste teorie, come vedremo, si fondano su un unico principio: quello che chi legge non abbia un quadro complessivo della situazione e che sia quindi indotto a vedere solo quello che gli piace (o gli fa comodo) vedere.

Alla prossima,

(Rio)

mercoledì 10 agosto 2011

Il caso Islanda: nota conclusiva [3/3]

Salve.

dai commenti che ho ricevuto su Facebook e sul blog a proposito dei due precedenti post (ecco i link: primo e secondo) relativi all'Islanda, sono scaturite alcune domande ed osservazioni interessanti, alle quali ora proverò a rispondere.

E' anche un'occasione per approfondire elementi che non sono ancora chiari -- almeno per qualcuno -- circa le responsabilità del paese nordico sulla crisi e per mettere a fuoco elementi su cui ho dovuto sorvolare per ragioni di brevità, nei post precedenti.

Innanzitutto, più di uno si e' chiesto: ma e' possibile per i governi nazionali (che sono tanti, sparsi per il mondo e con diverse colorazioni politiche e diverse visioni dell'economia, oltre che interessi diversi) trovare un accordo di regolamentazione unitario sul sistema finanziario?

Per la verità, tale complesso di norme unitario esiste ormai da oltre due decenni ed e' stato messo a punto dalla BRI, Banca per i Regolamenti Internazionali (nota anche con l'acronimo inglese BIS, Bank for International Settlements), con sede a Basilea, in Svizzera.
La BRI/BIS e' un organismo internazionale pubblico il cui principale fine, attualmente, e' proprio quello di lavorare per favorire la armonizzazione della normativa in materia finanziaria nei diversi Paesi che vi aderiscono e la messa a punto di un complesso di regole comuni che proteggano il sistema da eccessivi rischi di crisi.
La BRI/BIS definisce una serie di linee guida, che devono poi essere recepite all'interno della normativa nazionale degli Stati membri e sulla cui corretta adozione devono vigilare le rispettive Autorità finanziarie nazionali (in Italia la Banca d'Italia, in Gran Bretagna la FSA, eccetera).

La BRI esiste da prima che le stesse Nazioni Unite fossero istituite ed ha svolto molti compiti, ma la ragione per cui oggi viene citata e' per aver definito gli "Accordi di Basilea" del 1988, meglio conosciuti con il nome della loro revisione del 2006, denominata per brevità "Basilea II".

Gli Accordi di Basilea contengono le linee in materia di requisiti patrimoniali delle banche, che stabiliscono il capitale minimo che un istituto finanziario deve assicurare per esercitare la propria attività. In pratica, per ciascuna operazione di prestito effettuata dalla banca, questa deve possedere una quota di capitale regolamentare da accantonare a scopo precauzionale.

Proverò a spiegarmi: secondo gli accordi originari del 1988, ogni volta che una banca prestava del denaro ad un proprio cliente, doveva assicurarsi di accantonare l'8% del capitale erogato, senza poterlo investire (più o meno).
Lo scopo era quello di evitare che le banche si "esponessero" troppo, prestando più denaro di quanto fosse sicuro prestare, mettendo a rischio la solidità del sistema creditizio in caso qualcosa andasse storto.
Cioè, il fine degli Accordi di Basilea era esattamente quello di  evitare ciò che puntualmente succede in ogni crisi finanziaria. :-)

Gli Accordi di Basilea del 1988 furono pesantemente rivisti dopo la durissima crisi finanziaria giapponese della fine del XX secolo, perché si erano rivelati chiaramente inadeguati a tutelare il sistema dai rischi della finanza moderna.
In particolare le banche, per evitare di dover accantonare l'8%, erano spinte a mettere in piedi ed imbarcarsi in operazioni finanziarie sempre più complesse, anche ad alto rischio, purché riducessero notevolmente il capitale da accantonare.
Insomma, "Basilea I" spingeva gli istituti finanziari proprio nella direzione opposta a quella desiderata dal Regolatore.

Per cui, la BRI/BIS introdusse nel 2006 le nuove linee guida denominate "Basilea II", in cui il capitale da accantonare veniva fortemente legato al rischio di credito, di mercato ed operativo di ogni singola operazione.
Senza entrare troppo nei dettagli, riassumo:
  • il rischio di credito e' quello che deriva dalla possibilità di non essere pagati, oppure da quella che il tuo investimento perda di valore;
  • il rischio di mercato e' quello che deriva dalla possibilità di variazioni inattese delle condizioni di mercato (tipicamente, il tasso di cambio);
  • il terzo tipo, il rischio operativo, e' quello che deriva dalla possibilità di frodi, di controversie legali, di avarie dei sistemi informatici (!), di cataclismi naturali (!!) e tutto l'armamentario da Prima Legge di Murphy ("se qualcosa può andare storto, lo farà").
Semplificando (di molto), si fa una bella combinazione di questi tre fattori di rischio per mezzo di una formula e si accantona il capitale corrispondente. Poi, si procede con l'operazione di prestito.

Ora, "Basilea II" e' sicuramente un grande passo avanti, rispetto a "Basilea I"; su questo non c'è dubbio.
Resta pero' il fatto che nemmeno "Basilea II", entrata in vigore nel 2007-2008, sia riuscita ad impedire la crisi.
Le spiegazioni fornite sono diverse.
Alcuni hanno detto che la nuova normativa e' stata recepita dagli ordinamenti dei diversi Stati e poi implementata dagli istituti di credito troppo tardi per impedire la crisi (in effetti, nel 2007 il mercato era già bello che invaso da titoli tossici).
Altri hanno sottolineato che "Basilea II" non offriva sufficienti garanzie in materia di liquidità a breve e di trasformazione delle scadenze, per cui si sta già pensando di apportare delle correzioni con una "Basilea III"; ma questa e' un'altra storia.

Il punto e' che la normativa internazionale esiste e gli organismi di controllo nazionali pure. Il problema e' farli funzionare bene. Ed e' qui che la responsabilità e la piena collaborazione dei governi nazionali diventa cruciale.
Del resto, anche prescindendo da "Basilea II" e dal rischio default in senso stretto, appare del tutto logico e sensato il fatto che si declassino dal punto di vista dell'affidabilità finanziaria i prodotti creati dagli istituti di credito di un dato Paese, quando e' noto che questo Paese non vigila con sufficiente attenzione e rigore sul modo in cui tali istituti operano sui mercati.

Se un Paese vuole veder crescere il proprio settore finanziario e l'affidabilità che gli operatori internazionali gli attribuiscono, deve anche dimostrare con i fatti di saper vigilare. Qui non c'entra nulla la deregulation islandese: deregulation significa meno burocrazia, meno adempimenti formali e, a volte, anche meno tasse; ma di sicuro non assenza di controlli e possibilità di vendere prodotti finanziari ad alto rischio spacciandoli per "Tripla A".

Scaricare i rischi interamente sulle tasche dei cittadini di quei  paesi che hanno creduto alla capacita' degli Organi pubblici di controllo islandesi di fare bene il proprio lavoro, somiglia molto più ad una truffa che ad una operazione finanziaria: non vorrei sembrarvi eccessivo, ma se il fondo di banca Landsbanki invece che chiamarsi "IceSave", si fosse chiamato "GhePensoMiSave", credete davvero che avrebbe mai raccolto 6,7 miliardi di euro, solo tra Regno Unito e Olanda?

I risparmiatori e le Società di rating hanno fondato le proprie (errate) valutazioni sul fatto che l'Islanda fosse un paese serio che fa controlli seri.

E qui introduco anche un altro punto emerso dal dibattito sui due post precedenti: che c'entra la gente? Perché devono pagare i cittadini islandesi?

Innanzitutto, sfatiamo una leggenda metropolitana: con la "rivoluzione silenziosa" islandese, a pagare e' proprio la gente che c'entra di meno.
Spieghiamo: c'è un buco da 5 miliardi di euro a carico degli investitori (anche istituzionali) britannici. Questo vuol dire che alcuni sottoscrittori, ad esempio, di fondi pensione (in Gran Bretagna molto più diffusi e determinanti che da noi) hanno visto andare in fumo i propri soldi.

Secondo voi, il governo britannico ora cosa farà? Lascerà la gente senza più un penny di contributi versati, oppure in qualche modo ripianerà il buco, posto che c'è il tempo per farlo?

Teniamo a mente che qui non si tratta di qualche ricco speculatore che, nel corso di un'operazione finanziaria ad alto rischio, ha perso i suoi soldi. Qui si parla di 300mila soggetti prudenti che hanno fatto investimenti sicuri -- o almeno cosi' credevano -- e invece si sono ritrovati con i conti congelati, quindi senza poter neppure recuperare il capitale investito.

Naturalmente,  il governo britannico, constatata l'impossibilita' di recuperare i soldi dall'Islanda, dato l'esito del referendum, si vedrà costretto a ripianare il buco da sé.
Per fare questo, dovrà tassare i propri cittadini, molti dei quali non hanno fatto alcun investimento in Islanda.
Morale: se l'Islanda non paga, a pagare saranno invece:
  • il governo di un Paese straniero che non ha alcuna colpa (non spetta all'Autorità britannica, la FSA, il compito di vigilare sui prodotti finanziari emessi da banche islandesi);
  • il popolo di quel Paese straniero che, non avendo -- in massima parte -- fatto investimenti in Islanda, e' ancora più incolpevole.
Vi sembra davvero cosi' giusto?
Ma non e' tutto. Pensiamo anche a chi ci guadagna, da questo stato di cose.
Il governo islandese non ha vigilato come avrebbe dovuto o, se vogliamo, com'era lecito attendersi che avrebbe fatto. Gli uomini di governo sono cambiati, ma le Istituzioni non sono mai state popolari in patria come lo sono adesso (e vorrei pure vedere).
D'altronde, basta dare un'occhiata alle statistiche OCSE per notare alcune cose interessanti.
Entrate fiscali totali - Tasso di variazione % annua (fonte: OCSE - http://stats.oecd.org)


Nazione2000200120022003200420052006200720082009
Islanda8.1%12.9%5.8%3.0%10.4%10.5%13.8%12.0%12.9%1.5%
Irlanda16.0%11.5%11.4%7.3%6.7%8.7%9.0%7.4%-4.2%-10.1%
Germania2.5%2.5%1.4%1.0%2.2%1.4%3.8%4.6%2.0%-3.4%
Danimarca6.6%3.2%2.8%2.0%4.7%5.4%5.6%3.7%2.7%-4.5%
Gran Bretagna5.1%4.6%5.3%6.0%5.5%4.2%5.7%5.5%3.5%-3.6%
USA6.4%3.4%3.5%4.7%6.5%6.5%6.0%4.9%2.2%-1.8%
Olanda8.2%7.1%3.9%2.5%3.0%4.5%5.2%5.8%4.3%-4.1%
Italia5.7%4.8%3.7%3.1%4.2%2.7%3.9%4.1%1.4%-3.0%

Dopo il 2003, l'Islanda, grazie alla crescita ipertrofica del proprio settore finanziario, e' stato uno dei paesi in cui le entrate fiscali sono cresciute di più, in proporzione all'anno precedente.
In pratica lo Stato, attraverso le tasse fatte pagare alle banche, ha raccolto un ammontare ogni anno molto più elevato dell'anno precedente, sino a che, ad un certo punto, la crisi ha colpito duro.
Significativamente, l'altro paese che e' cresciuto molto e' l'Irlanda, ovvero un altro colosso finanziario dai piedi d'argilla.

Anche la serie storica delle entrate dello Stato (che l'OCSE esprime in rapporto al Prodotto Interno Lordo, per consentire il confronto tra Paesi) non lascia molto spazio ad interpretazioni:
Entrate dello Stato in percentuale del PIL  (Fonte: OCSE - http://stats.oecd.org)


Nazione 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008
Islanda 43.2% 43.6% 41.9% 41.7% 42.8% 44.1% 47.1% 48.0% 47.9% 44.3%
Irlanda 36.7% 36.1% 34.2% 33.2% 33.6% 34.9% 35.4% 37.2% 36.5% 34.9%
Gran Bretagna 39.8% 40.3% 40.6% 39.0% 38.7% 39.6% 40.8% 41.4% 41.4% 42.2%
USA 34.9% 35.4% 34.4% 31.9% 31.3% 31.6% 33.0% 33.8% 34.0% 32.3%
Paesi OCSE 38.8% 39.0% 38.4% 37.0% 36.8% 36.8% 37.7% 38.6% 38.6% 37.9%

Quando un'economia cresce, lo Stato rastrella denaro attraverso le tasse e lo impiega in vari modi: ripianando il debito pubblico (questo ovunque, tranne che in Italia), pagando stipendi e pensioni, finanziando la spesa sanitaria, gli investimenti in infrastrutture e in servizi, in programmi per sovvenzionare o incentivare settori economici in difficoltà, eccetera.
Domanda facile facile: chi e' il beneficiario ultimo di tutto questo (ripeto: lasciamo stare l'Italia)? Il cittadino, ovviamente.

I cittadini islandesi, lo Stato islandese, le imprese islandesi hanno beneficiato di un fiume di denaro estero, anche pubblico, che avevano raccolto offrendo rendimenti e livelli di rischio del tutto infondati, campati in aria.
Ad un certo punto, il loro castello di carte e' crollato. 
Tuttavia, a pagare per il crollo sarà il generico cittadino olandese o britannico, che non solo non ha goduto di questo denaro, ma che -- in alcuni casi -- se ne e' privato, contribuendo di tasca propria a generare il flusso di capitali verso l'Islanda, capitali di cui altri hanno usufruito.
Ecco servita la giustizia dei no global.


Saluti dal mondo reale,

(Rio)

PS.
Curioso che questi no global talvolta siano gli stessi soggetti che, quando un'azienda privata va male, invocano misure come la Cassa integrazione straordinaria per sostenere i lavoratori in difficoltà.
In quei frangenti, nessuno di loro sembra chiedersi da chi vengano i soldi per la Cassa integrazione (cioè dallo Stato, ovvero da noi), né perché -- posto che la cattiva gestione e' imputabile ad un soggetto privato -- debbano pagare tutti i cittadini. "E' una normale misura di solidarietà, di pace e di correttezza sociale", ti dicono.
Se invece il prezzo della cattiva gestione -- causata da un'azienda privata del loro Paese, in un regime di mancata vigilanza da parte delle Istituzioni del loro Paese e dopo che loro hanno goduto dei benefici di quel flusso di denaro -- lo pagano solo i cittadini di altri Paesi (che sono per lo più gente comune, mica ricchi capitalisti con sigaro, cilindro e frac!), invece che ingiustizia, la chiamano "la rivoluzione silenziosa". Valli a capire...

Sul caso Islanda sono stati scritti tre post (questo e' quello finale). Ecco i link agli altri due:

venerdì 29 luglio 2011

Il caso Islanda: finanza di base per no global e affini [2/3]

Salve.

Questo post segue quello pubblicato ieri sul caso islandese (ne ho anche aggiunto un terzo, di post, per approfondire alcuni aspetti. Lo trovate qui.) Nel post di ieri ho cercato di delineare - per quanto possibile in un blog generalista - le principali cause della crisi finanziaria mondiale scoppiata nel 2007.
In questa invece, entrerò nel merito della vicenda islandese, quella oggetto dell'articolo di Andrea Degl'Innocenti del 13/07/2011, dal titolo "Islanda, quando il popolo sconfigge l'economia globale".

Ricordo che quello di Degl'Innocenti e' un pezzo che circola molto sui social network, e nel quale si sostiene che il caso islandese rappresenti una via attraverso cui i popoli democratici possono liberarsi dal potere della finanza globale, arrivando cosi' all'autodeterminazione del proprio destino.

La tesi che dimostrerò è che tutto questo non è vero. E' solo demagogia. Di finanza globale c'è bisogno, ora più che mai. La finanza globale non si può - né si deve -  fermare.
Si deve, invece, regolamentare bene e controllare seriamente

Ma andiamo con ordine.
La domanda adesso e': nello scenario descritto dal mio precedente post, a cui vi rimando se non capite alcuni dei termini usati in questo post, come si colloca l'Islanda?
Chi ce l'ha con gli Islandesi e perché?

Nell'orgia di finanza derivata che ha dominato i mercati finanziari mondiali negli ultimi dieci anni (e che, si badi, non e' mica finita: ci sono ancora molti, molti titoli tossici in circolazione), le banche della piccola Islanda hanno svolto un ruolo importante, almeno con riferimento ad alcuni Paesi europei.

In particolare, le tre banche (private) Kaupthing, Glitnir e Landsbanki, che dal 2001 operavano in Islanda in un regime di ampia deregulation, e quindi con scarsi controlli sull'operato da parte della FME, l'Autorità di Vigilanza islandese, avevano cominciato a raccogliere ingenti risorse finanziarie da soggetti privati e da enti pubblici esteri, in particolare, britannici ed olandesi, sino ad accumulare un capitale gestito per i due Paesi pari - rispettivamente - a 5,8 ed a 2,4 miliardi di dollari.
Alcune fonti sostengono che l'intero ammontare del debito accumulato dalle banche islandesi sfiori i 50 miliardi di euro, pari a quasi sei volte il PIL dell'isola ed a circa 160mila euro per abitante.

Comunque sia, queste banche vendevano prodotti basati sulle CDO, offrendo rendimenti e livelli di rischio di grande interesse per gli investitori, al punto che i fondi pensione di oltre cento Enti Locali britannici (tra questi, cito la Contea del Kent e quella dell'Oxforshire, il Comune di Nottingham e quello di Cambridge) ed alcuni enti pubblici britannici (tra cui la Metropolitan Police Authority, cioè Scotland Yards, e la TFL, l'azienda trasporti pubblici di Londra) hanno acquistato i loro prodotti finanziari derivati; con loro, anche molte aziende private ed intermediari che hanno operato in nome e per conto di privati cittadini.
All'inizio del 2007, il Financial Times considerava la Corona Islandese la divisa più sopravvalutata del mondo.

Quando, nel 2008, il sistema finanziario islandese e' collassato ed e' stato nazionalizzato, ed il valore della Corona e' crollato di quasi l'80%, il governo islandese, resosi conto dell'entità spaventosa del debito accumulato dai propri istituti di credito privati, si e' rifiutato di ripianare le ingenti perdite degli investitori stranieri, anche di quelli, per cosi' dire, "istituzionali".
Tutto ciò nonostante fosse stato proprio il regime di deregulation con la sua assenza di controlli da parte del Governo a permettere il determinarsi di una situazione cosi' grave in cosi' poco tempo.
Al contrario, dopo alcune promesse rassicuranti fatte inizialmente agli investitori stranieri, nell'Ottobre del 2008 le Autorità islandesi hanno provveduto a congelare i conti di centinaia di migliaia di investitori britannici, scatenando le ire dell'allora Primo Ministro britannico laburista Gordon Brown e aprendo la via ad un vero e proprio incidente diplomatico tra i due Paesi. L'allora Cancelliere dello Scacchiere (cioè il Ministro delle Finanze britannico), il laburista Alistar Darling, minaccio' l'Islanda di adire le vie legali per ottenere una compensazione per gli oltre 300mila investitori britannici colpiti dai provvedimenti delle Autorità della piccola isola. 

Del resto, il governo ed il popolo islandesi avevano usufruito delle laute entrate fiscali generate dalla tassazione degli utili delle banche Kaupthing, Glitnir e Landsbanki, utilizzate per finanziare il costoso welfare state "scandinavo" del piccolo stato artico. Non era mica giusto che ora si rifiutassero di restituire almeno quella parte di denaro drenato alle banche che queste avevano rastrellato agli investitori esteri vendendo loro prodotti truffa, anche grazie all'assenza di controlli adeguati da parte dell'Autorità di Vigilanza Finanziaria di Reykjavik (vedasi il terzo post per i dettagli).

Il braccio di ferro tra i due Paesi e' proseguito per quasi due anni e mezzo, con il pesante declassamento del debito islandese da parte delle agenzie di rating Fitch e Moody's (BAA3 con outlook negativo) ed un'estenuante trattativa per spingere il governo della piccola isola ad accettare le condizioni di Olanda e Gran Bretagna per una restituzione del debito nel lungo periodo, minacciando anche di mettersi di traverso nel processo di valutazione della domanda di accesso all'Unione Europea presentato dal governo Islandese qualche anno prima.
In una delle sue ultime versioni (e' stato rinegoziato più volte) l'accordo prevedeva la restituzione del debito con il 3,3% di interessi alla Gran Bretagna ed il 3% all'Olanda nell'arco di trent'anni, tra il 2016 ed il 2046.

Credo tutti sappiano come sia andata a finire: in Islanda c'è stato un referendum sul piano di restituzione e la gente, udite udite, ha detto NO al piano, a larghissima maggioranza.
Del resto, se uno ti chiede: "Vuoi tu restituire tanti di quei soldi da indebitarti per il resto della tua vita, oppure preferisci non pagare, ché tanto non ti succede niente?", la risposta e' piuttosto scontata.
In Italia, i referendum in materia fiscale sono proibiti dalla Costituzione proprio per questo: per impedire alla gente di votare contro le proprie tasse. Sembra persino banale.

Eppure e' intorno a questo concetto che ruota l'articolo di Degl'Innocenti: il popolo che prende in mano le redini del proprio destino e, con coraggio, si libera delle catene della finanza globale e dei cattivi banchieri. Un tripudio della democrazia.

Peccato solo che Degl'Innocenti non si sia accorto che la piccola, "democratica" e "libera" Islanda quest'anno ha bisogno di 713 milioni di euro "freschi", solo per ripagare con gli interessi la sua ultima emissione di titoli di Stato del 2006; titoli detenuti anche da islandesi i quali, questa volta, non saranno molto contenti di sentirsi dire "NO" dai mercati. Siamo tutti gli Islandesi di qualcuno.

E chissà se ha riflettuto su che cosa succederà quando il Fondo Monetario Internazionale, a cui l'Islanda deve 4,6 miliardi di dollari, pretenderà come precondizione dall'Islanda che recuperi di credibilità sui mercati internazionali o, se preferite, tradotto: che si dia una regolata per sembrare un interlocutore finanziario affidabile, e non il truffatore con l'impermeabile dietro l'angolo che ti offre di fare «un vero affare».

Perché uno dei pilastri della finanza e' la fiducia.
Che farà l'Islanda? Dirà di nuovo di no, adottando comportamenti no global e si farà tagliare fuori da praticamente qualsiasi mercato finanziario del pianeta? Le conviene? E come le finanzia le opere pubbliche e il suo costoso welfare state alla scandinava, una nazioncina di poco più di 300mila abitanti? Certi giochetti, si sa, funzionano una volta sola.

E chissà che cosa pensano le brillanti menti "no global" della libertà e della democrazia dei sacrifici che i cittadini britannici dovranno fare per garantire una pensione a tutti quei lavoratori pubblici i cui soldi sono stati divorati dalle promesse senza fondamento su rendimenti e livelli di rischio fatte da istituti di credito su cui le Autorità Pubbliche Islandesi avrebbero dovuto vigilare con attenzione, invece di giocare alla deregulation.

Perché qualcuno quel conto in sospeso deve pure pagarlo; e se non sono i cittadini islandesi, saranno quelli britannici.

In fondo e' vero: un'altra economia e' possibile. Basta rivolgersi ai no global per trovare giustificazioni insensate ma semplici, quindi di facile presa, e intanto scappare con il malloppo.
Prima che persino chi ti ha appoggiato si accorga del trucco.


Saluti dal mondo reale,

(Rio)

PS. Scusate se ci ho messo due pagine per "smontare" un articoletto di mezza pagina. E che, qui cito il blogger e cacciatore di bufale Paolo Attivissimo: "A mettere in giro una bufala ci vuole un secondo; a demolirla, invece..." :-)

Sull'argomento Islanda sono stati scritti tre post (questo e' il secondo). Ecco i link agli altri due:

giovedì 28 luglio 2011

Il caso Islanda: finanza di base per no global e affini [1/3]

Salve.

Da un po' di tempo, nel sottobosco dei social networks circola insistentemente un articolo di Andrea Degl'Innocenti del 13/07/2011, riportato da numerosi blog e siti internet, dal titolo "Islanda, quando il popolo sconfigge l'economia globale" (a volte pubblicato con il titolo "Islanda, la rivoluzione silenziosa", ma si tratta dello stesso articolo).

In questo pezzo, Degl'Innocenti indica la grande riforma islandese, che investe anche la Costituzione del piccolo Paese nordico, come un esempio da seguire per tutti i paesi d'Europa alle prese con i problemi di una grave crisi finanziaria che non accenna a diminuire. Degl'Innocenti sostiene che il caso islandese rappresenti anche una via attraverso cui i popoli democratici possono affrancarsi dal potere degli istituti finanziari, giungendo cosi' all'autodeterminazione del proprio destino.

Questo post ed il successivo puntano ad analizzare la questione da un punto di vista alquanto diverso.

Vista la complessità della materia, ritengo sia davvero il caso di fare un passo indietro e di spiegare brevemente (e quindi tralasciando inevitabilmente molti aspetti) cosa ha causato la crisi e cosa ha fatto l'Islanda per farvi fronte. Per quanto umanamente possibile, cercherò di essere sintetico e, spero, anche chiaro.

Se conoscete già le premesse, saltate pure direttamente al prossimo post, in cui vado nel dettaglio della questione islandese.

All'indomani del crollo delle aziende ".com" e dell'attentato dell'11 Settembre 2001, si era venuto a creare in America un clima di crescente incertezza economica ed il paese si trovava a fronteggiare una crisi negli investimenti privati come non se vedevano da decenni: l'economia USA non cresceva ed il Presidente Bush chiese ad Alan Greenspan, l'allora Governatore della Federal Reserve (la Banca Centrale Americana), di fare qualcosa al riguardo.
Greenspan, come ogni governatore, penso' di usare la leva monetaria ed abbasso' "il costo del denaro", cioè il tasso di interesse a cui le banche private prendono a prestito i soldi dalla Banca Centrale. La speranza di Greenspan era che, se avesse fatto pagare un po' meno il denaro prestato alle banche, queste - a loro volta - sarebbero state incentivate ad offrire a prestito quel denaro alle imprese ad un tasso di interesse più basso, cosi' da favorire gli investimenti ed aiutare l'economia a ripartire.

Risultato: non successe praticamente niente. Le banche non presero soldi a prestito dalla Federal Reserve e non prestarono soldi ai loro clienti più di quanto non facessero già prima.
La ragione e' strategica: le banche sanno fare il proprio lavoro e conoscono bene chi hanno di fronte. C'era una guerra in corso, con un Presidente repubblicano ed un Congresso a maggioranza repubblicana.
Bush non poteva ridurre ancora le tasse per rilanciare l'economia americana, perché gli servivano i soldi per lo sforzo bellico in Afghanistan e non poteva nemmeno fare investimenti pubblici, per via della guerra e perché il Congresso, a maggioranza repubblicana, non avrebbe dato il proprio assenso all'adozione politiche keynesiane, fondate sulla spesa pubblica.
Non gli restava che chiedere al governatore Greenspan di abbassare ancora il costo del denaro ed incrociare le dita.
Non funzionò. E allora il costo del denaro andò ancora giù. E poi ancora giù.
Ve la faccio breve: sino alla fine del 2001, il tasso ufficiale USA era stato ribassato diverse volte sino ad arrivare addirittura all'1,75%. Per darvi un termine di confronto, all'inizio del 2000 era quasi quattro volte più alto, cioè al 6,5%.

Sapete quanto e' importante questo per le banche?
E' un po' come se un camionista, nel giro di due anni, vedesse scendere i prezzi della la benzina, cioè di quel che più gli serve per lavorare, del 70%. Probabilmente, cercherebbe di fare delle scorte.

Ed e' quel che hanno pensato di fare le banche che, trovandosi a poter prendere a prestito il denaro dalla Banca Centrale a quasi un quarto del costo di appena due anni prima, si sono precipitate a rastrellare quanti più soldi potevano dalla Federal Reserve.

Ora pero' c'era il problema di farli fruttare, questi soldi.
Ed e' qui che le banche hanno pensato di aumentare l'offerta di mutui ai cosiddetti clienti subprime. Che vuol dire? Inaffidabili. Si legge inaffidabili.
Ma perché mai le banche si sono messe a prestare soldi a gente inaffidabile?
Per due ragioni:
  • la prima e' che da un cliente subprime puoi pretendere un tasso di interesse più alto;
  • la seconda e' perché hai pronto un piano per scaricare su qualcun altro il rischio che il cliente subprime non ti paghi.
Il piano delle banche era, nei suoi principi generali, semplice.
Quando una persona inaffidabile accende un mutuo ad un tasso di interesse elevato, di solito comincia a manifestare segni di insolvenza soltanto dopo un po' di tempo. Esistono degli studi sui profili dei clienti che permettono di stabilire, con ragionevole accuratezza, il periodo di tempo dopo il quale e' probabile che una data tipologia di cliente comincerà a non pagare più le rate come dovrebbe.

L'idea era quella di incassare le prime rate e poi, quando il gioco cominciava a farsi un po' troppo rischioso, rivendere il credito ad un altro intermediario finanziario, tipo un'altra banca, un gestore di fondi o una SIM (società di intermediazione mobiliare).
Ma come fare a rivendere il credito ad un altro e quindi liberarsi del rischio? Il modo scelto dalle banche e' stato la cartolarizzazione: si prendono tutti i crediti subprime che si hanno e si dice: "Io ho qui questo pacco di crediti per mutui a subprime che valgono nominalmente, diciamo, 100. Se volete, pero', io ve li vendo a 85."

Gli intermediari finanziari li hanno acquistati. Ma perché? Perché, a loro volta, li hanno suddivisi in classi di rischio diverse (e a questo mondo, si sa, c'è cliente supbrime e cliente subprime...), li hanno mescolati ad altri crediti inesigibili che avevano già, come dei crediti commerciali (leggi: quelli in cui nel 99% dei casi puoi dire addio ai soldi), ed hanno creato dei prodotti finanziari derivati, che poi hanno reimmesso sul mercato.
Sono queste le cosiddette CDO (Collateralised Debt Obligations) o "titoli salsiccia". Un tipico prodotto della finanza derivata: titoli che derivano da "parti" di altri titoli.
Chi ha acquistato questi prodotti derivati, a sua volta, li ha spezzettati, rimescolati a qualcos'altro e poi reimmessi sul mercato, vendendo praticamente CDO derivate da altre CDO.
E poi ancora. E poi di nuovo.

Non ci vuole un Einstein per intuire che, dopo un po' di "derivazioni", nessuno ci ha più capito niente e che oramai gli intermediari finanziari non sapevano più davvero che cosa stessero comprando o vendendo.
Persino le agenzie di rating come Moody's e Standards & Poor - società indipendenti il cui ruolo e' quello di esprimere una valutazione, un punteggio sulla affidabilità dei prodotti finanziari - si sono ritrovate a dare AAA (il massimo dell'affidabilità) ad alcune CDO.
Ci sono state aziende e privati che hanno venduto obbligazioni pubbliche per acquistare CDO, posto che avevano lo stesso punteggio di affidabilità (lo stesso rating), ma rendimenti più elevati.

Nel giro di pochi anni, il mercato finanziario mondiale si e' ritrovato intossicato da una quantità enorme di CDO che si vendevano e comperavano come il pane, ma dentro cui nessuno capiva più cosa ci fosse realmente. Erano pero' titoli che per tutti avevano un valore semplicemente perché avevano un mercato. Questo e' il meccanismo all'origine di praticamente ogni bolla speculativa: la gente non sapeva cosa le CDO contenessero realmente ma, posto che si vendevano facilmente ed a buon prezzo, continuavano ad acquistarne.

Quello che e' successo dopo lo sanno tutti: i clienti inaffidabili hanno smesso di pagare le rate, i possessori dei crediti nei loro confronti hanno pignorato gli immobili offerti a loro tempo in garanzia dai clienti, ma solo per scoprire che:
  • c'era improvvisamente un'enorme quantità di immobili riscattati sul mercato: immaginatevi l'effetto sui prezzi;
  • le valutazioni immobiliari delle banche, a loro tempo, erano state - come dire? - un po' frettolose ed alcuni degli immobili riscattati erano in condizioni discutibili e non valevano nemmeno l'importo del mutuo.
Finché il gioco dei prestiti ai clienti subprime aveva retto, si era avuta un'impennata del mercato immobiliare. Gente a cui, sino a quel momento, era stata rifiutata una domanda di mutuo, ora poteva finalmente ottenerlo e cosi' comprarsi casa.
Con tutti questi acquirenti in piu', immaginate com'era salito il mercato immobiliare!

Poi, nel 2007, una grande quantità di immobili - quelli pignorati ai clienti insolventi - veniva immessa sul mercato, per cercare di recuperare le perdite seguite alla mancata restituzione del mutuo; di colpo.
Risultato: la gente non poteva restituire il prestito, il mercato immobiliare si e' improvvisamente sgonfiato, tutti quegli immobili non si riuscivano più a vendere per recuperare i soldi ed il loro valore scendeva e scendeva...

In una parola, chi si e' ritrovato in mano il cerino acceso delle CDO si e' improvvisamente accorto che quei titoli non valevano niente: erano praticamente carta straccia. Erano semplicemente una voce da iscrivere tra le perdite.
E di li', la crisi che tutti conosciamo: la più violenta dai tempi del crollo della Borsa del 1929.

Ma cosa c'entra tutto questo con l'Islanda?
Scopritelo nel prossimo post.

Saluti,

(Rio)

PS. Sull'argomento sono stati scritti tre post (questo e' il primo). Ecco i link agli altri due:

lunedì 4 luglio 2011

La sporca guerra di bugie su Israele

Salve.

Una delle principali ragioni per cui io detesto i totalitaristi - siano essi di Destra o di Sinistra - e' che, ebbri del proprio zelo "confessionale", delle loro incrollabili certezze, non esitano ad utilizzare spudoratamente le notizie come strumento di lotta politica, distorcendo i fatti sino al punto di costruire vergognose "versioni antagoniste" che capovolgono letteralmente la verita' oggettiva.

Guardate questo volantino che pubblicizza la "Festa Rossa" a Primavalle, Roma.

In fondo al volantino c'e' scritto che l'attivista politico italiano Vittorio Arrigoni, notoriamente sequestrato e assassinato durante la prigionia da terroristi palestinesi salafiti, sarebbe invece stato ucciso da cecchini israeliani mentre con il proprio corpo faceva scudo ai contadini palestinesi, per permettere loro di coltivare la terra. Per leggere meglio, potete scaricare il file ed ingrandire sullo schermo.

Alle proteste dei gruppi ebraici e filo-israeliani, e' seguita una rettifica urgente, il cui contenuto risulta ancora piu' grottesco delle falsita' diffuse dal volantino, perche' il circolo Puletti ha giustificato la cosa come un... refuso.

«
INOLTRIAMO LA RETTIFICA DEL CIRCOLO PULETTI DI ROMA
GIA’ TRASMESSA A TUTTI GLI ORGANI DI INFORMAZIONE 
RETTIFICA URGENTE
Roma, 29 giugno 2011. Con la presente si rettifica quanto erroneamente riportato nella guida di presentazione della "Festa Rossa" che si svolgerà nel Parco di via Sant'Igino Papa dal 6 al 10 luglio. A pagina 3 nelle ultime righe, per mero errore materiale di battitura nella trascrizione, viene asserito erroneamente che Vittorio Arrigoni è stato "assassinato in Palestina da cecchini israeliani...".
Mentre la frase esatta è la seguente: "Vittorio Arrigoni assassinato in Palestina da estremisti salafiti, mentre con lo scudo del suo corpo permetteva ai contadini palestinesi di coltivare la loro terra per non farli colpire da cecchini israeliani".
»


Infine, probabilmente imbarazzati dalla loro stessa rettifica, sul sito internet dell'evento (http://primavalleantagonista.noblogs.org/) si limitano a sostenere che ci sia la lunga mano di Israele dietro l'omicidio di Arrigoni, materialmente avvenuto per mano dei salafiti.
Questo perche' una bella manovra dietro le quinte, si sa, e' difficile da dimostrare e quindi non si corre il rischio di trovarsi in situazioni imbarazzanti come quella causata dal volantino.
E poi, a chi obietta che uno scenario del tipo "salafiti manipolati da Israele" e' una cosa probabile come dire che l'America manipolerebbe Al Qaida, si puo' sempre rispondere magari che - dato che il Mossad addirittura addestrerebbe squali feroci nel Mar Rosso - non dovrebbe avere troppi problemi ad ammaestrare anche quei pazzi dei salafiti.

La cosa piu' buffa, infine, e' che nelle loro dichiarazioni e rettifiche non osano mai dire che i salafiti sono tanto palestinesi quanto gli altri.
No. I salafiti sono salafiti: vengono dal paese di Salafitia, credo; non so. Chiedero' ai Rossi di Primavalle e vi faro' sapere.
Sempre che io non venga prima assassinato da cecchini dell'IDF all'interno di un centro sociale okkupato, o magari ucciso a sprangate da un gruppo di black bloc antagonisti manipolati dal Mossad.


Saluti,


(Rio)

PS. Si ringraziano i ragazzi del blog "Viva Israele" (http://vivaisraele.blogspot.com/) per il volantino e le informazioni raccolte sulla vicenda.

sabato 2 luglio 2011

Il futuro dell'industria discografica (ammesso che ne abbia uno)


L'evoluzione del mercato dei supporti musicali negli ultimi 40 anni.
Fonte: Elaborazioni Digital Music News su dati RIIA
Salve.
Era da tanto che volevo scrivere un post dedicato alla mia passione più antica, la musica, perché ci sono alcune cose che mi premeva di discutere sul (cupo) futuro dell'industria discografica.

Ora sarebbe facile obiettare: "Un momento! E' l'industria discografica così come la conosciamo noi che sta morendo, non la musica. Quella c'è e ci sarà per sempre!"
E in un certo senso è così, ma non è questo il punto. In gioco c'è molto, ma molto di più di un semplice cambio di modello di business nel mercato discografico.
Ma andiamo con ordine.

Ho letto da poco l'ultimo libro di Moses Avalon, dal titolo "Cento risposte a cinquanta domande sul music business". Per inciso, Moses Avalon, ex ingegnere del suono e produttore americano, è probabilmente il più celebre consulente di artisti della musica ed autore di libri sull'industria discografica.
Uno dei suoi libri, dal titolo "Confessioni di un produttore discografico", ha svelato molti retroscena e meccanismi contrattuali e finanziari con i quali le case discografiche normalmente ricavano profitti dagli artisti, spesso ben al di là di quelli che sono i limiti della correttezza.
I metodi descritti da Avalon non erano eccezioni, bensì prassi e modus operandi consolidati in decenni di lauti affari, a cui nessun artista - anche i più blasonati degli Anni '50, '60 e '70 - è mai sfuggito.
L'aver per primo sollevato il velo su questi "segreti" ha causato qualche problema legale a lui ed ai suoi confidenti (vi dico solo che Moses Avalon non è il suo vero nome e che solo di recente ha mostrato la propria faccia in pubblico), ma gli ha anche attirato le simpatie di molti artisti, tra cui alcune star, e di molti altri lavoratori del settore, felici che ci fosse finalmente qualcuno pronto ad assumersi la responsabilità di parlare chiaramente.

Ora, l'ultima delle cinquanta domande a cui Avalon risponde nel suo libro è: l'industria discografica sopravviverà altri vent'anni?
A parere di chi scrive questo blog, la risposta fornita da Moses Avalon è coerente ed articolata, oltre che scevra da molte delle solite banalità che si leggono sull'argomento.
Pertanto vale davvero la pena di riferirla.

Innanzitutto, bisogna capirsi su ciò che si sta davvero chiedendo: se la domanda è se il music business sopravviverà così com'è oggi, la risposta è ovviamente no. Del resto, nessun settore produttivo che resti uguale a se stesso abbastanza a lungo può sopravvivere: deve necessariamente evolversi.
Ma è chiaro che la domanda è piuttosto: il music business del futuro, ammesso che ci sia, sarà «limousine e feste grandiose» come ai vecchi tempi o si ridurrà ad un manipolo di grigi ragionieri che cercano di spremere ogni centesimo da quel che rimane degli artisti e dalla loro musica?

Per rispondere, secondo Avalon, dobbiamo ragionare come un investitore in beni di consumo che opera sui mercati di borsa. 
Ci sono tre fattori chiave:
  1. l'interesse della gente per la musica, cioè la centralità della musica nella vita delle persone, nei prossimi vent'anni;
  2. la domanda commerciale di musica, ovvero quella che viene da altre industrie che utilizzano il prodotto musicale finito: il cinema, i videogiochi, le suonerie dei telefonini, le applicazioni Apple e Android che usano musica, gli spot pubblicitari, i grandi magazzini che hanno la filodiffusione, fate voi;
  3. i costi di produzione e di commercializzazione della musica, cioè quanto costa ad una casa discografica non solo produrre una canzone, ma anche far sì che la canzone si distingua dal mare magnum di note e diventi anche gradita al pubblico, intrigante, o "di moda". Quindi, c'è dentro pure la promozione, la costruzione dell'immagine dell'artista, tutto.
A seconda che ciascuno di questi tre fattori vada su o giù, si ottiene uno scenario diverso.

Il primo scenario prevede l'aumento della domanda commerciale e la diminuzione dei costi.
Per questo scenario, cosa accade al primo dei tre fattori (la centralità della musica) è abbastanza irrilevante. Se le cose andranno così, ci sarà un'industria discografica, ma non sarà affatto "sexy" come quella di un tempo. Non ci saranno più grandi case discografiche (le cosiddette "major labels"), perché i profitti non sarebbero tali da giustificare gli elevati costi fissi di esercizio di queste grandi strutture. Al loro posto, ci saranno solo piccole case discografiche, con pochi dipendenti, profitti modesti ed anticipi sempre più bassi per gli artisti, che dovranno farsi molto marketing per conto proprio (e qui a me verrebbe da chiedere a Moses perché mai un artista dovrebbe ancora firmare un contratto discografico e dividere i ricavi, se poi deve farsi anche la promozione da solo).
In un certo senso, è il modello di business più livellato, più equo in termini di profitti. Tutti guadagneranno qualcosa, ma nessuno molto.
 
Lo scenario due prevede: aumentata centralità della musica, aumentata domanda commerciale ed aumentati costi.
Questo è lo scenario che sognano i dirigenti discografici nelle loro notti più selvagge: è il ritorno dell'epoca d'oro. Rock star viste di nuovo come idoli e maîtres à penser, poca concorrenza da chi non ha i grandi mezzi finanziari necessari per farsi valere, profitti elevati e rigidamente sotto il controllo di grandi major labels, celebrità che durano una vita, come Bob Dylan, e che generano flussi di cassa positivi per molto tempo, invece che per circa sei mesi.
Uno scenario improbabile, questo, visto che oggi per 9 dollari americani puoi comprare un'applicazione per il tuo iPad che registra e suona probabilmente meglio di qualsiasi studio di registrazione i Rolling Stones abbiano utilizzato negli Anni '70.

Lo scenario tre prevede: diminuzione della centralità della musica, aumento nella domanda commerciale e riduzione dei costi.
In questo scenario, la musica diverrà come il sale: una cosa di cui tutti hanno bisogno (perché tutto è insipido, senza), ma che non sono disposti a pagare più di un'inezia. Un semplice bene quotidiano di consumo, una "commodity" il cui costo è così ben incorporato in altri prodotti da essere percepito da molti come gratuito. Come il sale sulle sfoglie di patatine in sacchetto.
Troveremo musica nei nostri videogiochi, ce la regaleranno con i nostri telefonini, l'ascolteremo in banca e nel supermercato, nelle scene più emozionanti dei film che guarderemo, ma non la pagheremo mai, se non pochi spiccioli.

Lo scenario quattro è quello più "apocalittico": riduzione della centralità della musica, riduzione della domanda commerciale, aumento dei costi.
E' la vera fine, perché non rimane più nulla: nessuno produce più nuova musica, perché costa più di prima promuoverla e nessuno poi vuole pagarla, né la gente né le imprese.
Il tutto si ridurrà ad una gestione economica dei cataloghi musicali già esistenti. Niente case discografiche, ma società legali, con avvocati che amministrano la musica degli artisti del passato, sino a quando non diventa tutta di pubblico dominio. Una sorta di antiquari del diritto d'autore, per così dire.

Lo scenario cinque, infine, prevede: riduzione della centralità della musica, uguale o aumentata domanda commerciale e riduzione dei costi.
Tutto resta sostanzialmente decadente com'è oggi. Significa che tutto il glamour dell'industria discografica è perso per sempre, ed i musicisti, i produttori, gli ingegneri del suono saranno visti un po' come lavoratori a contratto, che realizzano il prodotto-musica e non si sbilanciano mai più di tanto: creativi conservatori, insomma.
Un'industria di "turnisti", più che di artisti. Otterranno il rispetto, ma avranno perso lo stile.
Vivranno in modo più regolare, ma non vivranno... meglio. :-)

Secondo Moses Avalon, tra vent'anni lo scenario più probabile è il numero tre: la musica come il sale. Un prodotto che dà gusto alle cose, ma nessuno lo paga più di qualche centesimo.
Io sono incerto tra il tre e l'uno.

Voi che scenario vedete come il più probabile, invece?

Saluti,

(Rio)

PS. Per chi vuole saperne di più:
http://www.mosesavalon.com/
Moses Avalon - 100 Answers to 50 Questions on the Music Business - Hal Leonard, 2011
Moses Avalon - Confessions of a Record Producer - Backbeat Books, 2006

martedì 14 giugno 2011

Il popolo degli addormentati (e voglio essere buono)

Salve.

Una volta si diceva: "Italiani, popolo di poeti, santi e navigatori".
Non so che fine abbia fatto quel popolo, ma io non lo vedo più da tempo.
Quello che io vedo ed ascolto oggi è un popolo molto diverso.

Da una parte - l'ho già detto diverse volte - vedo una classe politica pavida, cinica, opportunista e senza ideali né rispetto, incapace di prendere qualsiasi decisione impopolare, per il timore di assumersene le conseguenze in termini di ricaduta elettorale.
Dall'altra, c'è un popolo spesso infantile, che invoca a gran voce riforme sempre più pressanti, a condizione che siano soltanto gli altri a pagarne il prezzo.

Una schiera di corporazioni attaccate ai propri privilegi, a Destra come a Sinistra, che maschera il proprio egoismo sociale dietro insensate ed incoerenti rivendicazioni di difesa della libertà e della democrazia, spesso con una retorica patriottica o partigiana del tutto fuori luogo.

Queste corporazioni, consapevoli che l'adozione di soluzioni reali ai problemi del Paese comporterebbero necessariamente rinunce e sacrifici anche da parte loro, preferiscono rifugiarsi nei sogni o nella demagogia.

E così, se a Destra si torna a sognare l'Uomo della Provvidenza, Silvio Berlusconi, che "rimetta le cose a posto", a Sinistra si indugia ancora nel mito del modello sociale che dia giustizia a tutti senza togliere a nessuno, come se davvero una cosa del genere fosse possibile. O che quantomeno, tolga solo a "quelli là", dove "quelli là" sono i ricchi, i politici, gli imprenditori, e chiunque sia sufficientemente lontano e diverso da noi da far apparire il sacrificio, in fondo, equo.

Più la situazione si fa difficile ed i problemi del Paese pressanti e trasversali, più gli Italiani si rifugiano nel sogno di soluzioni idilliache e senza mezze misure. Ecco che si riafferma con forza la xenofobia leghista, il sogno della società "etnica" unita nella cultura cattolica; ecco che riemerge il mito del comunismo; ecco che ritorna la leggenda ecologista di una società industrializzata che produce l'energia di cui ha bisogno esclusivamente dal sole e dal vento (o quasi).

Sono miti che seducono, e che sedurranno in ogni tempo. Ma sono solo dei miti, delle utopie che dovrebbero, in una società matura ed informata, lasciare il posto ad approfondimenti e riflessioni serie sulla loro reale possibilità di attuazione, sui loro limiti, sui trabocchetti e sugli interessi forti che potrebbero celare.

In Italia, in un'era che dovrebbe essere post-partitocratica, post-ideologizzata, tutto questo non c'è; o non c'è ancora. C'è invece una grande superficialità, un desiderio smodato ed irrefrenabile di sognare ad occhi aperti un mondo impossibile, e la voglia puerile di immaginare con tutte le proprie forze che questo mondo diventi realizzabile soltanto perché "ci si crede tutti insieme", come in un mega-trip psichedelico.

Ed ecco che Silvio Berlusconi, uno scaltro imprenditore craxiano senza troppi scrupoli, diventa nell'immaginario collettivo "l'uomo che sa cosa bisogna fare e come va fatto". Un'immagine che ha completamente oscurato i reali interessi del "Cavaliere", e senza bisogno di alcuno sforzo da parte sua.
E così, il sogno del milione di posti di lavoro, le sue reiterate promesse, quasi mai mantenute, Berlusconi le ha rifilate al popolo degli addormentati con una facilità disarmante; da brivido.

Solo una parte del Paese, quella che stava "dall'altro lato dello schieramento politico", non ci è cascata, perché era stata colpita, offesa e danneggiata dalla propaganda di Berlusconi.
Ma sia chiaro che anche quella parte aveva ed ha ancora una gran voglia di lasciarsi andare. Anche quella parte è alla ricerca di qualcuno che la smuova, che le regali un brivido.
Poco importa se viene letteralmente presa per il culo con altrettanta disinvoltura. Qui ciò che serve è la passione, quella che non fa pensare, quella che ti acceca, così non puoi guardare la realtà in faccia.
E la realtà, signori miei, è ben più sconsolante.

La realtà è che, correndo dietro ai sogni, siano essi berlusconiani, neocomunisti o pseudo-ecologisti, il Paese sta perdendo un treno dopo l'altro, rispetto al resto d'Europa, e rischia di finire davvero male.

L'Italia degli Anni '10 del Terzo Millennio è come una tardona che passa di infatuazione in infatuazione, e non si accorge che il tempo passa e che presto, molto prima che possa rendersene conto, sarà vecchia.
Questa tardona ha troppa paura di prendere coscienza della propria condizione; è troppo spaventata dal pensiero di quanta fatica ci voglia per evitare la sorte spiacevole che teme di subire.
E allora si rifugia nel sogno infantile di una realtà idilliaca raggiunta senza sforzo.
Il sogno è comodo: ti mostra solo i traguardi, non ti fa percepire il sudore e le lacrime che devi versare per realizzarli.
Nel sogno è tutto bello, tutto facile, anche perché il prezzo è già stato pagato.

Ed ecco che la Sinistra si innamora della demagogia giustizialista di Italia dei Valori. Poco importa che il partito di Di Pietro sia uno scherzo di cattivo gusto persino per i suoi stessi parlamentari, che lo utilizzano come trampolino di lancio verso chissà quali altre fantomatiche carriere (sognano anche loro)...
Lui, Tonino, è l'Uomo di Legge (con amicizie e trascorsi discutibili, ma - ripeto - lasciateli sognare!), che ripristinerà il Senso dello Stato e la Legalità in Italia.
Tranne per sé e per suo figlio.
(mannaggia, proprio non ce la faccio a lasciarmi andare...)

Ed ecco che il Popolo Italiano (possiamo ancora chiamarlo così?) sogna un mondo di acqua pubblica... E lasciamo perdere il leggerissimo dettaglio che nessuno dei referendum riguardava la "privatizzazione dell'acqua", ma solo partecipazione dei privati alla gestione dei servizi idrici locali (e non solo idrici).
Dieci anni fa, quello stesso Popolo Italiano amava il privato; tutto andava privatizzato, cartolarizzato. Ora lo odia: il privato è male. Il privato cela interessi occulti. Il privato è lucro. Tutto va reso pubblico.
E pochi che guardano a cosa fa il resto del mondo. E nessuno che si ponga il problema vero: quello dei sistemi di selezione dei soggetti e dei meccanismi di controllo sulla gestione, senza i quali il tutto si riduce a scegliere tra un pubblico che spreca o un privato che lucra.

Dulcis in fundo, l'antinuclearismo. L'ultimo dei sogni italiani, in ordine di tempo. Quello che evoca lo spettro di Fukushima, di Černobyl, di Three Miles Island...
Il nucleare è il male assoluto. Il nucleare ci ucciderà tutti.

Va bene; allora non si fa.
Ma qualcuno si è chiesto - seriamente - quale sia l'alternativa al nucleare, oggi?
Oggi la sola alternativa sono i combustibili fossili, ovviamente.
La neo-verde Germania, addirittura, punta su una fonte energetica tutta nuova a pulitissima: il carbone.  :-)

Ma questa non è una risposta soddisfacente da dare ad un sognatore. Il sognatore vuole di più. Il sognatore vuole essere parte di qualcosa di bello, di grande, di nuovo e di pulito.
Prendiamo allora una manciata di tecnologie immature ed ancora largamente sperimentali, tutt'altro che scevre da problemi e da controindicazioni, e le spacciamo per LA soluzione alternativa.
Ecco: abbiamo dato al sognatore la terza via.
Ora può dormire sereno.

Poco importa se questa fantomatica terza via sia praticabile o meno.
Anzi, per confondere meglio le acque, diciamo che non una, bensì un mix di queste tecnologie alternative è la risposta.
E' un po' come nella finanza derivata, quando le S.I.M., per liberarsi di crediti commerciali ad alto rischio, li rimescolano ad altri tipi di titoli di credito nei cosiddetti "titoli salsiccia", le famigerate CDO, e le rimettono sul mercato in questa nuova veste: se prima erano in cento a capire il loro valore reale, ora saranno sì e no i due o tre più svegli.

E così, si sogna di qua e si sogna di là.
Pochi pensano, ancor di meno esprimono dubbi: chi fa un bel sogno detesta essere disturbato e il dubbio, per chi tifa a cervello spento, è più fastidioso di una zanzara in una notte d'estate.
Alla fine, parla solo chi proprio non ce la fa a stare zitto.

Da una parte e dall'altra, tanta passione e tanto tifo da stadio. Ma riflessioni, ricerche, letture poche; e quelle poche spesso strumentali.
Non che conti granché, sia chiaro: dormono tutti.

E in mezzo alle due gradinate di Ultras, tra i vari "Il governo a Dicembre ha tenuto! Rosica, Sinistra!" e i vari "Abbiamo vinto le amministrative e i referendum! Tie', Destra!", il Paese va, dolcemente, a puttane.

Buonanotte e sogni d'oro a tutti,

(Rio)

PS. A tal proposito, mi permetterei di suggerire una lettura illuminante: il corsivo di Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera del 12/06/2011, dal titolo "I tre veri pilastri della conservazione".