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domenica 29 settembre 2019

Greta Thunberg, la rabbia e le soluzioni


Salve. 

Credo che non ci sia persona sulla faccia della Terra che non abbia visto e sentito l'intervento della sedicenne svedese Greta Thunberg al summit sul clima delle Nazioni Unite. 

Un grido di rabbia, di indignazione, di frustrazione accompagnata da lacrime, sulla inettitudine della classe politica mondiale nell'affrontare l'emergenza climatica. La Thunberg ha parlato di ecosistemi che collassano, di gente che muore, coronando il tutto con dichiarazioni ideologiche non esattamente in linea, del tipo "siete qui a raccontarci favole sulla crescita infinita" o "avete privato me e la mia generazione dei nostri sogni", nonché l'ormai celeberrimo "come osate?!" ("how dare you?!", prudentemente tradotto da molti giornali in Italia con un più educato "come avete potuto?!"; ma si sa, in Italia sono tutti bravissimi a capire le cose). 

Chiariamo subito una questione: l'emergenza legata al cambiamento climatico non l'ha inventata Greta Thunberg, né qualche gruppo oltranzista di ecologisti radical chic. L'emergenza climatica è una realtà confermata da centri di ricerca e comitati scientifici di tutto il mondo. 

Dove ci si divide ancora, casomai, è sulle cause che l'hanno determinata oltre che, ovviamente, sui modi migliori per affrontarla. Ma è un fatto che la temperatura del pianeta è in aumento e che, fosse anche vero che questo è già successo altre volte in passato, di sicuro quelle volte non avevamo sette miliardi di esseri umani sulla Terra. 

Quindi il problema è reale. 
Sinora, a parlarne c'erano alcuni impavidi scienziati (inascoltati), qualche politico "verde" come Al Gore (deriso) e sparuti gruppi d'azione, più o meno ideologizzati, che ogni tanto riuscivano a conquistare le pagine dei giornali, prima di ripiombare inevitabilmente nell'oblio. 

Poi è arrivata Greta Thunberg. Una adolescente svedese, appassionata di temi ambientali, non dotata di retorica particolarmente brillante (anzi), ma con la grinta giusta, il look giusto, la tenacia giusta, le circostanze giuste, non lo so. Fatto sta che, da quando c'è lei, la questione ambientale ha riconquistato finalmente le prime pagine dei giornali, le aperture dei telegiornali, i temi in cima alle agende dei convegni mondiali, sino ad imporsi come "il tema", "la battaglia" del futuro in grado di mobilitare i giovani in massa. Tanto di cappello. 

A Greta Thunberg va dato atto di aver portato per la prima volta nella storia dell'umanità la questione del cambiamento climatico esattamente al centro del dibattito internazionale, sino nelle stanze più alte del "Potere" (anche di quello scritto con una pasoliniana ed inquietante "P" maiuscola). 
Non era mai successo prima. 
E queste sono conquiste mica da poco. Sono grandi vittorie di buon senso per cui noi altri dobbiamo esserle grati; altro che chiacchiere.

Il problema vero è che la denuncia non va bene, va benissimo; ma non basta. Ciò che occorre, qui, è trovare soluzioni praticabili, ragionevoli, fattibili; e che occorre trovarle in fretta, anche. 

Su questo, purtroppo, la GretAlleanza (così io voglio chiamare il gruppo di attivisti che lavora con e per Greta Thunberg) è inesorabilmente scivolata sul tipico, vecchio, trito ambientalismo ideologico oltranzista.
Per capirci, la Thunberg era solita dire, sino a non molto tempo fa, che un solo volo intercontinentale vanifica un anno di raccolta differenziata a Stoccolma. Io non so se questo sia vero, ma supponiamo pure di sì. La soluzione di Greta Thunberg sarebbe, semplicemente... quella di rinunciare a volare. 
E' la solita storia de "Il progresso inquina, quindi fermiamo il progresso". 

Ora, è più che evidente che fermare o anche soltanto ridimensionare le industrie inquinanti a livello mondiale avrebbe delle enormi ricadute sul piano economico, occupazionale, sulla qualità della vita e persino sulle aspettative di vita di miliardi di persone. Non pensate soltanto alle industrie colpite in senso stretto. Pensate anche all'indotto; ai servizi connessi. L'effetto a catena sarebbe talmente grande da risultare davvero difficile da stimare con esattezza.
Se nel 2008 la crisi di una sola tipologia di prodotti finanziari, i derivati CDO, ha innescato una crisi mondiale, immaginate cosa succederebbe se chiudessimo o ridimensionassimo anche soltanto le industrie più inquinanti: quella petrolchimica, quella estrattiva, le acciaierie, quelle delle materie prime e dei semilavorati... Sono tutte inquinanti. Tutte. 

In che modo avrebbe affrontato e risolto certe questioni secondarie la GretAlleanza, non è dato saperlo. Ma ultimamente, pare che abbia cambiato stile comunicativo e che oggi suggerisca come misura cardine contro l'aumento di CO2 nell'atmosfera quella di piantare miliardi di alberi e di altre piante, in particolare di quelle specie che sono più capaci di intrappolare anidride carbonica. 
Per quel niente di ecologia che so io, a me pare una proposta decisamente più sensata e condivisibile del solito "fermiamo tutto" che darà pure grandi soddisfazioni emotive a chi lo enuncia, ma che non ha mai risolto niente.

La nota davvero stonata della visione gretesca del problema (consentitemi il neologismo) è rappresentata dalla --per ora-- velata coloritura socialista-terzomondista nel messaggio che, almeno nelle rivendicazioni contro il progresso, è come un filo d'olio d'oliva: non guasta mai. 

Nell'intervento della Thunberg, infatti, non sarà sfuggita ai più l'accusa ai politici di tutto il mondo che "ci vendono favole sulla crescita infinita". A parte che a me questo non risulta, ma mi sembra un'accusa molto discutibile, posto che viene da una che vuol venderci il mito della decrescita felice

Dico che a me non risulta perché chiunque abbia studiato un po' di economia sa bene che la crescita infinita, almeno nel modo in cui probabilmente la intende lei, non esiste né è mai esistita. Ciò che accresce la ricchezza di una nazione è la sua capacità di produrre valore aggiunto dalle risorse che sono a sua disposizione, non lo sfruttamento di maggiori quantità di quelle stesse risorse. 
Altrimenti tutti i Paesi produttori di materie prime sarebbero benestanti e noi altri che invece le importiamo saremmo tutti poveracci. 
Quando un Paese si organizza meglio sul piano normativo, produttivo, tecnologico e delle risorse umane, riesce a ricavare più ricchezza da quello che ha già: non gli serve spremere di più il pianeta. Anzi, la cosa diventa controproducente, perché lo impoverirebbe nel lungo termine.
Certe cose, il capitalismo le sa benissimo.

Persino sul piano macroeconomico questa storia della "crescita infinita in un mondo di risorse finite" non ha alcun senso: tutti i sistemi conoscono momenti di crescita, momenti di stasi e momenti di crisi.
Ciò che davvero abbiamo avuto negli ultimi 70 anni e passa, almeno qui in Europa, è stato un periodo di pace e di stabilità politica, che ha comportato un periodo di crescita economica prolungata in Paesi che avevano anche gli strumenti politici ed organizzativi per redistribuirla. Questo ha fatto sì che in Europa le condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione migliorassero enormemente. 

Si potrebbero portare centinaia di esempi storici in cui non una crescita infinita, che non esiste, ma una fase di crescita economica prolungata abbiano migliorato la qualità della vita di interi popoli.
Stiamo ancora tutti aspettando, invece, che la GretAlleanza o chi per lei ci presenti anche solo un unico, fulgido caso storico di decrescita felice che abbia funzionato non dico nel lungo periodo; mi va bene anche nel medio periodo. 

Un ultimo accenno ai soliti, patetici tentativi di legare la crisi climatica alla lotta al capitalismo. Gira in rete uno slogan a effetto che recita più o meno: «L'ambientalismo senza lotta al capitalismo è giardinaggio».
La frase viene attribuita a varie persone, dall'ambientalista brasiliano Chico Mendes a mio nonno, ma il punto non è questo, posto che devi essere davvero alla frutta per tentare anche certe strade.
Chi sostiene --e con che coraggio!-- che "la lotta per l'ambiente è inscindibile dalla lotta di classe" (cit.), chiaramente, non conosce, non ricorda o ignora l'enorme contributo allo sfacelo ambientale da parte della sgangherata industria pesante socialista, con le sue fabbriche antiquate dotate di ciminiere senza alcun depuratore collocate al centro delle città (fatevi un giro in una capitale qualsiasi di un ex Paese comunista europeo, per rendervene conto), dei massicci sversamenti di sostanze chimiche pericolosissime a Dzerzinsk, dell'inquinamento di metalli pesanti (cadmio, selenio, piombo, zinco) in Siberia, con intere aree in cui l'aspettativa di vita è del 15% più bassa che altrove. 

Ma senza arrivare a parlare delle discariche di scorie nucleari del Kirghizstan, guardate soltanto all'inquinamento dei Paesi che sono o si dicono ancora socialisti oggi: il Venezuela, un Paese petrolifero privo di qualsiasi cultura ambientale. Si pensi solo a cosa succede nel lago di Maracaibo; alla deforestazione amazzonica, che in Venezuela raggiunge livelli da record (con buona pace del povero Chico Mendes, buonanima).
Eppure è strano: secondo alcuni, l'ambientalismo è connaturato al socialismo. Sono una cosa sola, no? Vero?

Saluti,

Rio