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martedì 26 marzo 2013

Indignados, torti e ragioni [2] - L'uscita dall'euro

Salve.

Attualmente in Italia, anche a seguito della grande affermazione del Movimento Cinque Stelle alle recenti elezioni politiche, si fa un gran parlare della possibilità di uscire dalla moneta unica e di ritornare alla lira.

E' un'opzione sulla quale anche alcuni economisti si sono detti possibilisti, ove non favorevoli, motivata da una serie di ragioni che possono essere sintetizzate nei vantaggi di riacquistare la sovranità valutaria da parte del nostro Paese e dalla possibilità dell'utilizzo della leva monetaria come strumento in più per affrontare la crisi economica.

L'idea di fondo è quella di tornare alla lira per svalutare ed aiutare le esportazioni italiane (come avveniva negli Anni '80, in cui la lira era sottovalutata), rilanciando così l'economia.

Si tratta in realtà di una scelta davvero miope e rischiosa, perché foriera di una serie di problemi molto seri che -- con ogni probabilità -- dopo una (eventuale) fase iniziale di miglioramento apparente, non farebbero altro che aggravare la situazione italiana.
Vediamone rapidamente due.


Problema uno: il nuovo tasso di cambio. Inflazione e svalutazione.
Chiunque sogni che la nuova lira possa essere scambiata con l'euro allo stesso tasso di cambio stabilito il giorno dell'entrata in vigore della divisa europea oltre dieci anni fa, cioè 1.936,27 lire per un euro, è destinato a rimanere deluso.

Il tasso di cambio è solo inizialmente un "atto politico": alla mezzanotte del ritorno alla lira, tutti i risparmi nei nostri conti correnti, tutti i nostri stipendi e salari, tutti i contratti, gli accordi commerciali, le transazioni e tutti i bilanci verrebbero convertiti da euro in lire ad un tasso di cambio stabilito "politicamente".
Ma questo sarebbe solo un effetto di breve durata.

Infatti, a stabilire quanto realmente vale la nuova lira italiana sui mercati valutari internazionali non è la volontà del Parlamento o del Governo italiani, purtroppo. Il tasso di cambio è l'effetto della volontà dei mercati di accettare la nostra (sgangherata) valuta e di scambiarla con l'euro, con il dollaro, con la sterlina o con qualsiasi altra divisa.

Il punto non è stampare cartamoneta e di stabilire arbitrariamente quanto vale, ma far sì che ogni banconota stampata rappresenti un eguale controvalore di beni e  di servizi prodotti, in altre parole, di ricchezza reale del Paese.

Per quanto tempo, infatti, i nostri fornitori esteri sarebbero disponibili ad accettare pagamenti in lire in base ad un tasso di cambio lira-euro (o lira-dollaro) deciso dal Ministero dell'Economia del Governo Italiano?
La risposta logica è che, guardando all'economia reale del nostro Paese, i fornitori esteri pretenderebbero o un tasso diverso, per tutelarsi meglio, oppure di essere pagati direttamente in valuta pregiata, così da scaricare ogni rischio di cambio sulle nostre imprese.

Posto che l'economia italiana negli ultimi dieci anni si è contratta notevolmente, mentre l'indebitamento è aumentato in misura considerevole, offrire pagamenti in valuta nazionale ai nostri fornitori di beni esteri importati significa vedere rapidamente aumentare i prezzi di quegli stessi beni. Ciò è legato alla necessità del mercato di scambiare le valute ad un tasso di cambio ritenuto congruo dai soggetti economici che effettivamente vi operano, e non certo da chi occupa le poltrone più importanti in Viale dell'Astronomia.

Naturalmente, i costi di produzione di tutti i prodotti italiani realizzati con l'ausilio di quei beni importati -- tra i quali figurano, lo ricordiamo, idrocarburi (petrolio e metano), materiali da costruzione di molti tipi (ad esempio, metalli e leghe, sia grezzi che semilavorati), sostanze e prodotti chimici, apparecchi elettronici, alimentari (!) -- non potrebbero che incorporare anche gli aumenti dei prezzi di importazione dei beni esteri e, di conseguenza, generare un effetto a catena di incremento anche dei prezzi di vendita dei beni italiani.

Proverò a semplificare: se per produrre e portare nei negozi un certo bene italiano X mi servono anche materie prime e semilavorati stranieri e se il loro prezzo d'importazione aumenta, io non posso che aumentare anche il prezzo di vendita di X. Questo perché il costo di produzione di X è, di fatto, aumentato.

Questo fenomeno di aumento a catena dei prezzi di vendita di ogni prodotto si chiama inflazione.
L'inflazione ha molti effetti spiacevoli, ma il più ovvio consiste nella perdita di potere d'acquisto di stipendi, salari e pensioni; e la ragione è evidente: i prezzi di ogni cosa aumentano, ma le buste paga della gente e le loro pensioni, invece, restano invariate.

Un altro effetto negativo è dato dal fatto che l'inflazione interna finisce con il minare alla base i benefici alle esportazioni generati dalla svalutazione della divisa locale: in breve, si svaluta per abbassare i prezzi di vendita in valuta estera e così esportare di più, ma si finisce con il dover aumentare i prezzi in valuta locale perché si è generata inflazione.

Ciò può spingere la politica ad agire in due modi: o cercare di contenere l'inflazione, scaricandone il "costo" sulla gente (si legga: non si aumentano stipendi e pensioni), oppure adottare misure a tutela del potere d'acquisto, attraverso un adeguamento di salari e pensioni al nuovo costo della vita e, nello stesso tempo, si procede ad un'ulteriore svalutazione della lira, volta a preservare i vantaggi per le esportazioni italiane.

E' ovvio che nessuna delle due strade è auspicabile: con la secondo, in particolare, si rischia di innestare una spirale di inflazione / svalutazione di tipo sudamericano, nel quale l'economia nazionale potrebbe trovarsi intrappolata e dalla quale diventerebbe difficile uscire, per un Paese importatore di materie prime, senza enormi sacrifici.

Inoltre -- come è già accaduto in alcuni Paesi dell'America Latina -- la spirale inflazione / svalutazione, riducendo progressivamente il valore del denaro depositato nei conti correnti,  determina l'erosione e, infine, la distruzione dei risparmi in valuta locale.  


Problema due: il debito già contratto in euro.
L'Italia, in questi undici anni di valuta unica, ha contratto debiti rilevanti in euro, attraverso l'emissione di titoli del debito nazionale nella divisa europea.

Questi debiti non possono mica essere ripagati in lire: bisogna continuare a pagare in euro i debiti sottoscritti in euro. Ma se il tasso di cambio nuova lira-euro peggiora, per l'Italia questo significa pagare di più: significa un peggioramento della situazione debitoria del nostro Paese, ovvero proprio di quella situazione che ha maggiormente contribuito a generare lo stato di crisi in cui l'Italia si trova impelagata da anni.

Naturalmente, l'alternativa è quella di fare default, cioè bancarotta (a tal proposito, vedasi anche il mio post del 15/10/2011).
In questo caso, si dichiarerebbe ufficialmente che l'Italia non è più in grado di pagare e si procederebbe alla cosiddetta "ristrutturazione del debito": in sostanza, si direbbe ai nostri creditori che, ad esempio, se prima dovevamo loro "100", ora dobbiamo loro solo "40". Prendere o lasciare.

Questa può sembrare per qualcuno una situazione ottimale, in quanto permetterebbe all'Italia di liberarsi in un sol colpo del fardello del debito e riconquistare anche la piena sovranità finanziaria, oltre che monetaria.

Ma in economia, proprio come nella vita, quando una cosa è troppo bella per essere vera, probabilmente non è vera; oppure non è così bella come sembrava all'inizio. :-)

E infatti, la ristrutturazione del debito cambia radicalmente le aspettative dei mercati (sia degli investitori esteri che di quelli italiani), che chiederebbero interessi più elevati per acquistare titoli del nostro debito pubblico, per tutelarsi da un rischio maggiore.

Come mai?  La ragione è anche qui ovvia: la fiducia. E' la stessa ragione per cui una banca che presta i soldi ad un privato che ha già fatto bancarotta una volta pretende interessi più alti di quelli che invece chiederebbe a chi ha una storia finanziaria improntata alla solidità e al rispetto degli impegni presi.

Dopo il default, l'affidabilità dello Stato italiano non sarebbe più la stessa e anche i nostri concittadini sottoscrittori di titoli di Stato pretenderebbero maggiori garanzie (ricordiamo che circa la metà del debito italiano è ancora in mano ad investitori italiani).

Non è da escludere che, alla prossima necessità di liquidità per pagare la spesa pubblica, lo Stato italiano -- non potendo o non volendo offrire rendimenti troppo elevati sui titoli pubblici -- si veda persino obbligato al rifinanziamento attraverso operazioni di trasferimento dai nostri conti correnti; oppure che ricorra, semplicemente, alle tasse.

Quel che i cittadini non sono più disposti a prestare allo Stato perché non si fidano, diventa quindi oggetto di un prelievo forzoso.

A queste considerazioni, si aggiunge anche il fatto che nei 18 anni passati (ovvero da quando l'Italia ha deciso e si è impegnata ad entrare nella moneta unica), la divisa comune europea ci ha permesso di risparmiare circa 700 miliardi di euro in interessi sul debito -- anche se va detto che lo Stato italiano ha immediatamente provveduto a "rimangiarseli", aumentando la spesa pubblica.

Sicuri che valga davvero la pena di tornare alla lira?

Saluti,

(Rio)

P.S. Alcuni si chiedono: ma perché non possiamo ripetere il giochino della svalutazione, posto che negli Anni '80 funzionava così bene? 
Perché negli Anni '80 non c'erano ancora né la situazione debitoria che abbiamo oggi né la globalizzazione dell'economia. 
Oggi, un'azienda cinese può produrre contando su una forza lavoro che fa turni di 12 ore al giorno per 7 giorni alla settimana e guadagna, diciamo, 200 euro al mese. E così giù, lungo tutta la filiera. 
Distorsioni del mercato del lavoro così gravi vanificano qualsiasi manovra di svalutazione a sostegno delle esportazioni. 
Cos'è, qualcuno vorrebbe mettersi a competere con la struttura di costi delle aziende cinesi ?  :-)