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mercoledì 10 agosto 2011

Il caso Islanda: nota conclusiva [3/3]

Salve.

dai commenti che ho ricevuto su Facebook e sul blog a proposito dei due precedenti post (ecco i link: primo e secondo) relativi all'Islanda, sono scaturite alcune domande ed osservazioni interessanti, alle quali ora proverò a rispondere.

E' anche un'occasione per approfondire elementi che non sono ancora chiari -- almeno per qualcuno -- circa le responsabilità del paese nordico sulla crisi e per mettere a fuoco elementi su cui ho dovuto sorvolare per ragioni di brevità, nei post precedenti.

Innanzitutto, più di uno si e' chiesto: ma e' possibile per i governi nazionali (che sono tanti, sparsi per il mondo e con diverse colorazioni politiche e diverse visioni dell'economia, oltre che interessi diversi) trovare un accordo di regolamentazione unitario sul sistema finanziario?

Per la verità, tale complesso di norme unitario esiste ormai da oltre due decenni ed e' stato messo a punto dalla BRI, Banca per i Regolamenti Internazionali (nota anche con l'acronimo inglese BIS, Bank for International Settlements), con sede a Basilea, in Svizzera.
La BRI/BIS e' un organismo internazionale pubblico il cui principale fine, attualmente, e' proprio quello di lavorare per favorire la armonizzazione della normativa in materia finanziaria nei diversi Paesi che vi aderiscono e la messa a punto di un complesso di regole comuni che proteggano il sistema da eccessivi rischi di crisi.
La BRI/BIS definisce una serie di linee guida, che devono poi essere recepite all'interno della normativa nazionale degli Stati membri e sulla cui corretta adozione devono vigilare le rispettive Autorità finanziarie nazionali (in Italia la Banca d'Italia, in Gran Bretagna la FSA, eccetera).

La BRI esiste da prima che le stesse Nazioni Unite fossero istituite ed ha svolto molti compiti, ma la ragione per cui oggi viene citata e' per aver definito gli "Accordi di Basilea" del 1988, meglio conosciuti con il nome della loro revisione del 2006, denominata per brevità "Basilea II".

Gli Accordi di Basilea contengono le linee in materia di requisiti patrimoniali delle banche, che stabiliscono il capitale minimo che un istituto finanziario deve assicurare per esercitare la propria attività. In pratica, per ciascuna operazione di prestito effettuata dalla banca, questa deve possedere una quota di capitale regolamentare da accantonare a scopo precauzionale.

Proverò a spiegarmi: secondo gli accordi originari del 1988, ogni volta che una banca prestava del denaro ad un proprio cliente, doveva assicurarsi di accantonare l'8% del capitale erogato, senza poterlo investire (più o meno).
Lo scopo era quello di evitare che le banche si "esponessero" troppo, prestando più denaro di quanto fosse sicuro prestare, mettendo a rischio la solidità del sistema creditizio in caso qualcosa andasse storto.
Cioè, il fine degli Accordi di Basilea era esattamente quello di  evitare ciò che puntualmente succede in ogni crisi finanziaria. :-)

Gli Accordi di Basilea del 1988 furono pesantemente rivisti dopo la durissima crisi finanziaria giapponese della fine del XX secolo, perché si erano rivelati chiaramente inadeguati a tutelare il sistema dai rischi della finanza moderna.
In particolare le banche, per evitare di dover accantonare l'8%, erano spinte a mettere in piedi ed imbarcarsi in operazioni finanziarie sempre più complesse, anche ad alto rischio, purché riducessero notevolmente il capitale da accantonare.
Insomma, "Basilea I" spingeva gli istituti finanziari proprio nella direzione opposta a quella desiderata dal Regolatore.

Per cui, la BRI/BIS introdusse nel 2006 le nuove linee guida denominate "Basilea II", in cui il capitale da accantonare veniva fortemente legato al rischio di credito, di mercato ed operativo di ogni singola operazione.
Senza entrare troppo nei dettagli, riassumo:
  • il rischio di credito e' quello che deriva dalla possibilità di non essere pagati, oppure da quella che il tuo investimento perda di valore;
  • il rischio di mercato e' quello che deriva dalla possibilità di variazioni inattese delle condizioni di mercato (tipicamente, il tasso di cambio);
  • il terzo tipo, il rischio operativo, e' quello che deriva dalla possibilità di frodi, di controversie legali, di avarie dei sistemi informatici (!), di cataclismi naturali (!!) e tutto l'armamentario da Prima Legge di Murphy ("se qualcosa può andare storto, lo farà").
Semplificando (di molto), si fa una bella combinazione di questi tre fattori di rischio per mezzo di una formula e si accantona il capitale corrispondente. Poi, si procede con l'operazione di prestito.

Ora, "Basilea II" e' sicuramente un grande passo avanti, rispetto a "Basilea I"; su questo non c'è dubbio.
Resta pero' il fatto che nemmeno "Basilea II", entrata in vigore nel 2007-2008, sia riuscita ad impedire la crisi.
Le spiegazioni fornite sono diverse.
Alcuni hanno detto che la nuova normativa e' stata recepita dagli ordinamenti dei diversi Stati e poi implementata dagli istituti di credito troppo tardi per impedire la crisi (in effetti, nel 2007 il mercato era già bello che invaso da titoli tossici).
Altri hanno sottolineato che "Basilea II" non offriva sufficienti garanzie in materia di liquidità a breve e di trasformazione delle scadenze, per cui si sta già pensando di apportare delle correzioni con una "Basilea III"; ma questa e' un'altra storia.

Il punto e' che la normativa internazionale esiste e gli organismi di controllo nazionali pure. Il problema e' farli funzionare bene. Ed e' qui che la responsabilità e la piena collaborazione dei governi nazionali diventa cruciale.
Del resto, anche prescindendo da "Basilea II" e dal rischio default in senso stretto, appare del tutto logico e sensato il fatto che si declassino dal punto di vista dell'affidabilità finanziaria i prodotti creati dagli istituti di credito di un dato Paese, quando e' noto che questo Paese non vigila con sufficiente attenzione e rigore sul modo in cui tali istituti operano sui mercati.

Se un Paese vuole veder crescere il proprio settore finanziario e l'affidabilità che gli operatori internazionali gli attribuiscono, deve anche dimostrare con i fatti di saper vigilare. Qui non c'entra nulla la deregulation islandese: deregulation significa meno burocrazia, meno adempimenti formali e, a volte, anche meno tasse; ma di sicuro non assenza di controlli e possibilità di vendere prodotti finanziari ad alto rischio spacciandoli per "Tripla A".

Scaricare i rischi interamente sulle tasche dei cittadini di quei  paesi che hanno creduto alla capacita' degli Organi pubblici di controllo islandesi di fare bene il proprio lavoro, somiglia molto più ad una truffa che ad una operazione finanziaria: non vorrei sembrarvi eccessivo, ma se il fondo di banca Landsbanki invece che chiamarsi "IceSave", si fosse chiamato "GhePensoMiSave", credete davvero che avrebbe mai raccolto 6,7 miliardi di euro, solo tra Regno Unito e Olanda?

I risparmiatori e le Società di rating hanno fondato le proprie (errate) valutazioni sul fatto che l'Islanda fosse un paese serio che fa controlli seri.

E qui introduco anche un altro punto emerso dal dibattito sui due post precedenti: che c'entra la gente? Perché devono pagare i cittadini islandesi?

Innanzitutto, sfatiamo una leggenda metropolitana: con la "rivoluzione silenziosa" islandese, a pagare e' proprio la gente che c'entra di meno.
Spieghiamo: c'è un buco da 5 miliardi di euro a carico degli investitori (anche istituzionali) britannici. Questo vuol dire che alcuni sottoscrittori, ad esempio, di fondi pensione (in Gran Bretagna molto più diffusi e determinanti che da noi) hanno visto andare in fumo i propri soldi.

Secondo voi, il governo britannico ora cosa farà? Lascerà la gente senza più un penny di contributi versati, oppure in qualche modo ripianerà il buco, posto che c'è il tempo per farlo?

Teniamo a mente che qui non si tratta di qualche ricco speculatore che, nel corso di un'operazione finanziaria ad alto rischio, ha perso i suoi soldi. Qui si parla di 300mila soggetti prudenti che hanno fatto investimenti sicuri -- o almeno cosi' credevano -- e invece si sono ritrovati con i conti congelati, quindi senza poter neppure recuperare il capitale investito.

Naturalmente,  il governo britannico, constatata l'impossibilita' di recuperare i soldi dall'Islanda, dato l'esito del referendum, si vedrà costretto a ripianare il buco da sé.
Per fare questo, dovrà tassare i propri cittadini, molti dei quali non hanno fatto alcun investimento in Islanda.
Morale: se l'Islanda non paga, a pagare saranno invece:
  • il governo di un Paese straniero che non ha alcuna colpa (non spetta all'Autorità britannica, la FSA, il compito di vigilare sui prodotti finanziari emessi da banche islandesi);
  • il popolo di quel Paese straniero che, non avendo -- in massima parte -- fatto investimenti in Islanda, e' ancora più incolpevole.
Vi sembra davvero cosi' giusto?
Ma non e' tutto. Pensiamo anche a chi ci guadagna, da questo stato di cose.
Il governo islandese non ha vigilato come avrebbe dovuto o, se vogliamo, com'era lecito attendersi che avrebbe fatto. Gli uomini di governo sono cambiati, ma le Istituzioni non sono mai state popolari in patria come lo sono adesso (e vorrei pure vedere).
D'altronde, basta dare un'occhiata alle statistiche OCSE per notare alcune cose interessanti.
Entrate fiscali totali - Tasso di variazione % annua (fonte: OCSE - http://stats.oecd.org)


Nazione2000200120022003200420052006200720082009
Islanda8.1%12.9%5.8%3.0%10.4%10.5%13.8%12.0%12.9%1.5%
Irlanda16.0%11.5%11.4%7.3%6.7%8.7%9.0%7.4%-4.2%-10.1%
Germania2.5%2.5%1.4%1.0%2.2%1.4%3.8%4.6%2.0%-3.4%
Danimarca6.6%3.2%2.8%2.0%4.7%5.4%5.6%3.7%2.7%-4.5%
Gran Bretagna5.1%4.6%5.3%6.0%5.5%4.2%5.7%5.5%3.5%-3.6%
USA6.4%3.4%3.5%4.7%6.5%6.5%6.0%4.9%2.2%-1.8%
Olanda8.2%7.1%3.9%2.5%3.0%4.5%5.2%5.8%4.3%-4.1%
Italia5.7%4.8%3.7%3.1%4.2%2.7%3.9%4.1%1.4%-3.0%

Dopo il 2003, l'Islanda, grazie alla crescita ipertrofica del proprio settore finanziario, e' stato uno dei paesi in cui le entrate fiscali sono cresciute di più, in proporzione all'anno precedente.
In pratica lo Stato, attraverso le tasse fatte pagare alle banche, ha raccolto un ammontare ogni anno molto più elevato dell'anno precedente, sino a che, ad un certo punto, la crisi ha colpito duro.
Significativamente, l'altro paese che e' cresciuto molto e' l'Irlanda, ovvero un altro colosso finanziario dai piedi d'argilla.

Anche la serie storica delle entrate dello Stato (che l'OCSE esprime in rapporto al Prodotto Interno Lordo, per consentire il confronto tra Paesi) non lascia molto spazio ad interpretazioni:
Entrate dello Stato in percentuale del PIL  (Fonte: OCSE - http://stats.oecd.org)


Nazione 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008
Islanda 43.2% 43.6% 41.9% 41.7% 42.8% 44.1% 47.1% 48.0% 47.9% 44.3%
Irlanda 36.7% 36.1% 34.2% 33.2% 33.6% 34.9% 35.4% 37.2% 36.5% 34.9%
Gran Bretagna 39.8% 40.3% 40.6% 39.0% 38.7% 39.6% 40.8% 41.4% 41.4% 42.2%
USA 34.9% 35.4% 34.4% 31.9% 31.3% 31.6% 33.0% 33.8% 34.0% 32.3%
Paesi OCSE 38.8% 39.0% 38.4% 37.0% 36.8% 36.8% 37.7% 38.6% 38.6% 37.9%

Quando un'economia cresce, lo Stato rastrella denaro attraverso le tasse e lo impiega in vari modi: ripianando il debito pubblico (questo ovunque, tranne che in Italia), pagando stipendi e pensioni, finanziando la spesa sanitaria, gli investimenti in infrastrutture e in servizi, in programmi per sovvenzionare o incentivare settori economici in difficoltà, eccetera.
Domanda facile facile: chi e' il beneficiario ultimo di tutto questo (ripeto: lasciamo stare l'Italia)? Il cittadino, ovviamente.

I cittadini islandesi, lo Stato islandese, le imprese islandesi hanno beneficiato di un fiume di denaro estero, anche pubblico, che avevano raccolto offrendo rendimenti e livelli di rischio del tutto infondati, campati in aria.
Ad un certo punto, il loro castello di carte e' crollato. 
Tuttavia, a pagare per il crollo sarà il generico cittadino olandese o britannico, che non solo non ha goduto di questo denaro, ma che -- in alcuni casi -- se ne e' privato, contribuendo di tasca propria a generare il flusso di capitali verso l'Islanda, capitali di cui altri hanno usufruito.
Ecco servita la giustizia dei no global.


Saluti dal mondo reale,

(Rio)

PS.
Curioso che questi no global talvolta siano gli stessi soggetti che, quando un'azienda privata va male, invocano misure come la Cassa integrazione straordinaria per sostenere i lavoratori in difficoltà.
In quei frangenti, nessuno di loro sembra chiedersi da chi vengano i soldi per la Cassa integrazione (cioè dallo Stato, ovvero da noi), né perché -- posto che la cattiva gestione e' imputabile ad un soggetto privato -- debbano pagare tutti i cittadini. "E' una normale misura di solidarietà, di pace e di correttezza sociale", ti dicono.
Se invece il prezzo della cattiva gestione -- causata da un'azienda privata del loro Paese, in un regime di mancata vigilanza da parte delle Istituzioni del loro Paese e dopo che loro hanno goduto dei benefici di quel flusso di denaro -- lo pagano solo i cittadini di altri Paesi (che sono per lo più gente comune, mica ricchi capitalisti con sigaro, cilindro e frac!), invece che ingiustizia, la chiamano "la rivoluzione silenziosa". Valli a capire...

Sul caso Islanda sono stati scritti tre post (questo e' quello finale). Ecco i link agli altri due: