GA_TagManager_Container

domenica 31 ottobre 2010

Mi sa che non ho capito niente... :-)

Salve.

In gioventù, spesso mi è capitato di essere stato tra quelli che pensavano alla propria vita come ad un progresso continuo, una serie ininterrotta di successi che mi avrebbero portato a fare conquiste personali gratificanti.
Ho creduto - ma davvero creduto! - che questo fosse l'essenziale e che il resto, le cosiddette "cose importanti", come una famiglia, dei figli, sarebbero venute col tempo praticamente da sole, quasi discese dal cielo.

Non immaginavo affatto, a quei tempi, che le mie convinzioni sarebbero state solo l'ennesimo sbaglio da pagare con anni preziosi trascorsi a vivere la vita... di un altro.

Un peccato davvero, ma non ho che me stesso da incolpare per questo: di tutti gli errori che si possono fare nella vita, una delle categorie che si pagano a più caro prezzo è quella degli sbagli che derivano dal non conoscere bene se stessi. Congratulazioni, quindi.

Ciò premesso, se mi guardo intorno, scopro di essere in ottima compagnia: molti altri miei connazionali, uomini e donne, sono cadute nella medesima trappola.
Come spesso succede, questa "trappola" ha un sapore ed un profumo diverso per ciascuno di noi, ma la sostanza rimane la stessa: "Rimanda, rimanda, c'è tempo, pensa piuttosto a fare questa o quell'altra esperienza, non vincolarti in modo da rimpiangere di non aver fatto... ecc ecc".
La frase, ognuno la completi come crede: non è importante.

Qui in Gran Bretagna, invece, la maggior parte delle persone dà un peso determinante alle "cose importanti". E' piuttosto frequente incontrare per strada coppie di Inglesi (sto parlando di Inglesi, non solo di immigrati!) nei loro vent'anni con due o tre figli.
Molti di loro non hanno affatto paura di imbarcarsi nell'esperienza della paternità o della maternità; lo fanno presto e - comincio ad averne il sospetto - lo fanno anche bene.

Non vivono l'esperienza di avere dei figli come una galera, un'ossessione continua, né quella del matrimonio come di una catena che non si può spezzare (visione ereditata dalla nostra cultura cattolica del matrimonio come vincolo indissolubile e senza ritorno).
Mettono al mondo dei figli e si occupano di loro quando hanno non solo il tempo, ma anche la voglia di farlo.
Punto.
Non si sentono cattivi genitori per questo e non smettono certo di vivere per badare ai propri figli.
Sono genitori giovani che vivono l'esperienza della genitorialità restando giovani.
Se falliscono, divorziano e - dopo una naturale fase di elaborazione personale - ricominciano a vedere gente. Tutto qui.
Diversamente da quanto si pensa in Italia, i loro figli non crescono necessariamente come degli scapestrati o dei disadattati per questo e, di solito, imparano a cavarsela da soli prima dei nostri.

Quando avevo 30 anni, mi dicevo che era troppo presto per essere un genitore, che avevo ancora "tanto da vivere".
Ma, a ben vedere, non è che dopo i trent'anni io mi sia poi divertito tanto; o almeno non tanto da giustificare il desiderio di rimandare l'esperienza della paternità.

Guardando quelle giovani coppie inglesi, un tempo non lontano avrei detto: "Naaah, assurdo...!"
Oggi, 10 anni dopo, mi domando: "E se invece sono io che non ho capito un cazzo della vita?"


Saluti,

(Rio)